Emilio Salgari

I Pirati della Malesia


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così. Chi hai a Sarawak per recarti laggiù?

      – Il mio padrone.

      – Cosa fa? È soldato del rajah, forse?

      – No, è prigioniero del rajah.

      – Prigioniero? E perché?

      L’indiano non rispose.

      – Parla – disse brevemente il pirata. – Voglio sapere tutto.

      – Avrete la pazienza di ascoltarmi? La storia è lunga quanto terribile.

      – Le storie terribili e sanguinose piacciono alla Tigre; siedi e narra.

      4. Un terribile dramma

      Kammamuri non se lo fece ripetere due volte. Si sedette in mezzo ad un mucchio di velluti sgualciti, bruttati qua e là di macchie, e, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso, come per raccogliere le idee, disse: – Tigre della Malesia, avete udito parlare delle Sunderbunds del sacro Gange?

      – Non conosco quelle terre – rispose il pirata, – ma so cos’è il delta di un fiume. Tu vuoi parlare dei banchi che ostruiscono la foce della grande fiumana.

      – Sì, dei grandi ed innumerevoli banchi coperti di canne giganti e popolati di feroci animali che si estendono per molte miglia dalla foce dell’Hugly a quella del Gange. Il mio padrone era nato là in mezzo, in un’isola che si chiama la jungla nera. Era bello, era forte, era prode, il più prode che io abbia incontrato nella mia vita avventurosa. Nulla lo faceva tremare: né il veleno del cobra-capello, né la forza prodigiosa del pitone, né gli artigli della grande tigre del Bengala, né il laccio dei suoi nemici.

      – Il suo nome? – chiese il pirata. – voglio conoscere questo eroe.

      – Si chiamava Tremal-Naik, il cacciatore di tigri e serpenti della jungla nera.

      La Tigre della Malesia a quel nome si alzò, guardando fisso il maharatto.

      – Cacciatore di tigri, hai detto? – domandò.

      – Sì.

      – Perché tale soprannome?

      – Perché cacciava le tigri della jungla.

      – Un uomo che affronta le tigri non può essere che un coraggioso. Senza conoscerlo, sento già di amare quel fiero indiano. Tira avanti: divento impaziente.

      – Una sera Tremal-Naik ritornava dalla jungla. Era una sera magnifica, una vera sera del Bengala; dolce e profumata era l’aria, ancor fiammeggiante l’orizzonte e debolmente stellato il firmamento.

      Aveva già percorso un lungo tratto senza incontrare anima viva, quando gli si rizzò dinanzi, a meno di venti passi, fra un cespuglio di mussenda, una giovinetta di meravigliosa bellezza.

      – Chi era?

      – Era una creatura dalla carnagione rosea, coi capelli neri e gli occhi immensi.

      Lo fissò per un istante con sguardo malinconico, poi sparve. Tremal-Naik fu così vivamente toccato da quell’apparizione che arse d’amore per la fanciulla sconosciuta.

      Pochi giorni dopo un delitto veniva commesso sulle rive di un’isola che si chiama Raimangal. Uno dei nostri, che si era recato colà a cacciare la tigre, veniva trovato cadavere con un laccio al collo.

      – Oh!… – esclamò il pirata, al colmo della sorpresa. – Chi poteva aver strangolato un cacciatore di tigri?

      – Siate paziente e lo saprete. Tremal-Naik, come vi dissi, era un uomo coraggioso. Mi prese con sé e sbarcammo a mezzanotte a Raimangal, risoluti a vendicare lo sventurato nostro compagno.

      Dapprima udimmo rumori misteriosi che uscivano di sotto terra, poi dal tronco di un gigantesco banian sbucarono parecchi uomini nudi, bizzarramente tatuati. Quegli uomini erano gli assassini del povero cacciatore di tigri.

      – Ebbene? – chiese il pirata, i cui occhi brillavano di gioia.

      – Tremal-Naik non esitava mai. Un colpo di carabina bastò per gettare a terra il capo di quegli indiani, poi fuggimmo.

      – Bravo Tremal-Naik! – esclamò la Tigre con entusiasmo. – Continua. Mi diverto più a udire questa storia che ad abbordare un vascello carico di minerale giallo.

      – Il mio padrone, per far perdere le tracce a quegli uomini che ci inseguivano, si separò da me e si rifugiò in una grande pagoda dove ritrovò… indovinate chi?

      – La giovanetta forse?

      – Sì, la giovanetta che era prigioniera di quegli uomini.

      – Ma chi erano?

      – Gli adoratori di una divinità feroce che altro non brama che vittime umane. Si chiama Kalì.

      – La terribile dea dei thugs indiani?

      – La dea degli strangolatori.

      – Quegli uomini sono più feroci delle tigri. Oh! io li conosco – disse il pirata. – Ne ebbi qualcuno nella mia banda.

      – Un thug nella tua banda? – esclamò il maharatto, rabbrividendo. – Sono perduto.

      – Non aver paura, Kammamuri; un tempo ne ebbi qualcuno, ma ora non ne ho più. Continua il tuo racconto.

      – La fanciulla, che amava ormai il mio padrone, conoscendo quali pericoli lo circondavano, lo scongiurò di partire all’istante; ma egli non era uomo da aver paura. Rimase là in attesa dei feroci thugs, risoluto a misurarsi con loro e, potendo, a rapire la prigioniera. Ma ohimè! Aveva troppo confidato nelle sue forze. Poco dopo dodici uomini armati di laccio entravano e si scagliavano contro di lui e, malgrado la sua ostinata difesa, veniva atterrato, legato e poi pugnalato dal capo degli strangolatori, il feroce Suyodhana.

      – E non morì? – chiese Sandokan, che si interessava al racconto.

      – No – continuò Kammamuri, – non morì poiché più tardi io lo ritrovai in mezzo alla jungla, insanguinato, col pugnale ancora infisso nei petto, ma vivo.

      – E perché lo avevano gettato nella jungla? – chiese Yanez.

      – Perché le tigri lo divorassero. Lo portai nella nostra capanna e dopo molte cure guarì, ma il suo cuore era rimasto ferito dagli occhi neri della giovinetta… Un giorno, dopo essere scampato a parecchi agguati tesigli dai thugs, risolvette di partire per Raimangal, deciso a tutto pur di rivedere l’amata creatura. C’imbarcammo di notte, durante un uragano, scendemmo il Mangal e approdammo all’isola.

      Nessun uomo vegliava all’entrata dei banian e ci sprofondammo sotto terra addentrandoci in oscurissimi corridoi. Avevamo saputo che i thugs, non essendo riusciti ad estirpare dal cuore della giovinetta dagli occhi neri l’amore per Tremal-Naik, avevano deciso di bruciarla viva, per calmare l’ira della mostruosa dea, e noi correvamo a salvarla.

      – Ma perché era proibito a quella donna di amare? – chiese Yanez.

      – Perché era la guardiana della pagoda consacrata alla dea Kalì e, come tale, doveva mantenersi pura.

      – Che razza di bricconi!

      – Continuo: dopo aver percorso lunghi corridoi, uccidendo le sentinelle, ci trovammo in una immensa sala sostenuta da cento colonne e illuminata da una infinità di lampade che spandevano all’intorno una luce spettrale. Duecento indiani, coi lacci in mano, erano seduti all’intorno. In mezzo si ergeva la statua di Kalì: dinanzi a lei, il bacino dove nuota un pesciolino rosso, che si dice contenga l’anima della dea; e più oltre si levava un gran rogo.

      Alla mezzanotte ecco apparire il capo Suyodhana coi suoi sacerdoti che trascinavano l’infelice ragazza, ubriacata di oppio e di misteriosi profumi. Ella non opponeva più alcuna resistenza.

      Già non distava che pochi passi dal rogo; già un uomo aveva acceso una fiaccola e i thugs avevano intonato la preghiera dei defunti, quando io e Tremal-Naik ci slanciammo come leoni in mezzo all’orda, scaricando le nostre armi a destra e a sinistra. Sfondare quella muraglia umana, strappare la giovinetta dalle mani dei sacerdoti e fuggire attraverso le