c’era veramente bisogno della lettura!… Si sapeva bene che la felice memoria non avrebbe… Un modello di testamento!… Che saggezza! Che testa!…»
Monsignore, specialmente, approvava:
«Non ha dimenticato nessuno! Tutti possono essere contenti…»
E Ferdinando, Chiara, Lucrezia, tutti e tutte ricevevano la loro parte di congratulazioni mentre il notaio e il giudice compivano le formalità del verbale. Ma don Blasco, che appena finita la lettura aveva ripreso a rodersi le unghie con più fame di prima, gironzolando intorno intorno come un calabrone, acchiappò Ferdinando mentre il presidente gli stringeva la mano e lo trasse nel vano di una finestra:
«Spogliati! Spogliati! Siete stati spogliati! Spogliati come in un bosco!… Rifiutate il testamento, domandate quel che vi tocca!»
«Perché?» disse il giovane, attonito.
«Perché?» proruppe don Blasco guardandolo nel bianco degli occhi, quasi volesse mangiarselo vivo, quasi non potesse entrargli in mente l’idea di una sciocchezza come quella del nipote, d’una ingenuità tanto balorda. «Per questo!» e giù una mala parola da far arrossire gli antenati dipinti; poi, voltate le spalle a quel pezzo di babbeo, corse dietro al marchese:
«Rovinati, spogliati, messi nel sacco!» gli spiattellava, ficcandogli quasi le dita negli occhi. «Divisione legittimaria? E come fa i conti?… Se accettate cotesto testamento, siete gli ultimi…» e giù un’altra mala parola. «I conti ve li faccio io, in quattro e quattr’otto! E per te la collazione dell’assegno che non avesti! E neppure una parola sul legato di Caltagirone! Dichiara che rifiuti, seduta stante!»
Il marchese, sbalordito da quella furia, balbettò:
«Eccellenza, veramente…»
«Che veramente e falsamente mi vai…? O credi che a me ne entri qualche cosa?… Io dico pel vostro interesse, bestia che sei!»
«Parlerò a mia moglie…» rispose il marchese; ma allora il monaco, guardatolo un momento fisso, lo mandò a carte quarantotto come quell’altro babbaccio, e si diresse verso la marchesa.
Questa era con tutte le altre signore che facevano cerchio a donna Ferdinanda: la zitellona non esprimeva il proprio parere, non rispondeva al cicaleccio degli astanti: «Il giusto!… Tutti trattati bene!… Un modello di testamento…» E la cugina Graziella alla principessa: «Le male lingue volevano dire che la zia avesse diseredato tuo marito! Come se il bene che voleva a Raimondo potesse impedirle di riconoscere in Giacomo il capo della casa, l’erede del titolo!» La duchessa Radalì, invece, con aria tra stupita e costernata, confessava a don Mariano: «Non l’avrei mai creduto! Eredi tutti e due? E allora la primogenitura dove se ne va? Le case hanno proprio da finire?…» Ma la principessa, imbarazzatissima, non osava rispondere, non lasciava con gli occhi il principe. Questi, nel gruppo degli uomini che non cessavano di ripetere: «Che saggezza! Che previdenza!» dichiarava con voce grave: «Ciò che ha fatto nostra madre è ben fatto…» mentre il Priore ripeteva a Monsignore: «La volontà della felice memoria sarà certo legge per tutti…» e solo Raimondo pareva stufo dei rallegramenti, insofferente delle strette di mano congratulatorie. Ma già Baldassarre, spalancato l’uscio di fondo, entrava seguito da due camerieri che reggevano due grandi vassoi di gramolate e di paste e di biscotti. Il principe cominciò a servire i testimoni; il maestro di casa si diresse dalla parte delle signore.
«Rubati del vostro! Spogliati! Ridotti in camicia!» diceva frattanto don Blasco alla nipote Chiara che era riuscito ad agguantare. «Per favorire quello scapestrato che neppur si diede la pena di venirla a vedere prima che crepasse! E quell’altra villana ch’è venuta a ficcarsi qui dentro!» Il monaco fulminava di sguardi rabbiosi la contessa Matilde. «Vi lascerete rubare così? Qui bisogna agire subito, spiattellare chiaro e tondo che rifiutate il testamento, che chiedete quel che vi viene…»
«Io non so, zio…»
«Come non sai?»
«Parlerò a Federico…» Allora il monaco uscì fuori dei gangheri:
«E andate un poco a farvi più che benedire, tu, Federico, tutti quanti siete, compreso io, più bestia di tutti che me ne prendo!… Qui!» ordinò a Baldassarre che andava a servire la contessa, e presa una gramolata, la bevve d’un sorso, per temperar la bile che gli saliva alla gola.
Suo fratello don Eugenio, zitto zitto, si ficcava a pugni nelle tasche paste e biscotti, ne masticava a due palmenti, ci beveva su bicchieri di Marsala, non acqua inzuccherata, come uno che non è certo di far colazione. Ciò nonostante badava ad approvare con grandi scrollate di capo Monsignor Vescovo, il quale, vedendo che il Priore don Lodovico rifiutava di rinfrescarsi a motivo che era vigilia, dichiarava al presidente: «Un angelo! Tutto quel che è interesse mondano non l’ha mai toccato! Vivo esempio di virtù evangelica…» e il presidente, con la bocca piena: «Famiglia esemplare!» confermava; «dello stampo antico!… Dove mettete quell’eccellente principe?» E il principe, finalmente, ridottosi in un vano di finestra con lo zio duca:
«Ha udito Vostra Eccellenza?» gli diceva con riso amaro.
«Quel che pareva impossibile è vero!… La mia famiglia è rovinata!…»
«Non credevo neppur io!» esclamava il duca. «Che gli avrebbe fatto una posizione privilegiata tra i legittimari, sì; ma coerede?»
«E perfino il quartiere qui in casa!… per farmi un’onta! La casa dei nostri maggiori ha da servire ai Palmi!…»
«Dev’esser contenta la Palmi!» diceva ora la cugina Graziella alla duchessa. «Suo marito coerede!… Il povero Giacomo costretto a dividere col fratello!… A me dispiace per quest’intrusa, che metterà ancora un altro poco di superbia…»
Pesavano sulla contessa Matilde gli sguardi irosi o severi di don Blasco, della cugina, del principe. Tutte le volte che Baldassarre s’era diretto a lei per servirla, qualcuno aveva fatto cenno al maestro di casa di servire un’altra o un altro. E adesso rimaneva lei soltanto; ma donna Ferdinanda, fatto venire il principino Consalvo, se lo mise a sedere sulle ginocchia e chiamò:
«Qui, Baldassarre…»
3
Da quel giorno, don Blasco non ebbe più pace. A lui come a lui, che l’eredità andasse spartita in un modo piuttosto che in un altro, importava meno d’un fico secco; ma fin da quando egli era entrato al convento, non avendo più affari propri, la sua costante preoccupazione era stata di ficcare il naso in quelli degli altri.
Ragazzo, egli aveva visto i bei tempi di casa Uzeda, quando suo padre, il principe Giacomo xiii, spendeva e spandeva regalmente, con venti cavalli in istalla, uno sciame di servitori e un’intera corte di lavapiatti che prendevano posto alla tavola imbandita giorno e notte. Allora, il futuro Cassinese non aveva udito altri discorsi fuorché quelli delle straordinarie ricchezze di suo padre, dei grandi feudi che possedeva, delle rendite che riscoteva da mezza Sicilia; e glien’era naturalmente venuta una smania di godimenti, un’ingordigia di piaceri che ancora non sapeva precisare egli stesso; quando un bel giorno fu messo al noviziato di San Nicola e poi costretto a pronunziare i voti. Tutte quelle ricchezze erano del fratello primogenito: a lui non toccava altro che la dotazione di trentasei onze l’anno indispensabile per entrare nella ricca e nobile badìa!… Si scialava, veramente, a San Nicola, forse meglio che in casa Francalanza. Il convento, immenso, sontuoso, era agguagliato ai palazzi reali, a segno che c’eran le catene distese dinanzi al portone; e le rendite di cui godeva, circa settantamila onze l’anno, bastavano appena ad una cinquantina tra monaci, fratelli e novizi. Ma il lauto trattamento e l’allegra vita e la quasi assoluta libertà di fare quel che gli piaceva, non dissiparono dal cuore del monaco il cruccio per la violenza patita; tanto più che gli altri fratelli cadetti, il secondogenito Gaspare duca d’Oragua e lo stesso Eugenio, restavano al secolo, con pochi quattrini, in verità, ma con la possibilità di procacciarsene; liberi del tutto, a ogni modo, e padroni di vestirsi secondo la moda, non costretti a portar la tonaca che pesava a don Blasco più che a un servo la livrea. L’acrimonia del Benedettino, il suo dolore per le perdute ricchezze, la sua invidia contro i fratelli, il suo rancore contro il padre, si sfogarono quindi con l’esercizio quotidiano d’una censura acerba