ad offuscar lo splendore della casa, come quel volpone del duca amoreggiante coi repubblicani, come quella pazza da legare di Lucrezia che non voleva smetterla d’aspettare al balcone il passaggio del Giulente!…
Solo fra tutti don Eugenio, quando non lavorava alla memoria per disseppellire la nuova Pompei, assisteva alla lettura del Mugnòs, citava altri storici della famiglia. Allora fratello e sorella passavano a rassegna il lungo ordine di avi, recitavano la cronaca delle loro gesta, il secolare sforzo per afferrare e mantener la fortuna; i tradimenti, le ribellioni, le prepotenze, le liti continue che gli scrittori narravano velatamente, e che essi magnificavano. Artale di Uzeda, «giornalmente dal suo castello con i suoi armigeri uscendo, signoreggiava tutto il paese»; Giacomo, vissuto al tempo del Re Lodovico, «dominò Nicosia e ne fu alla perfine rimosso per i molti dazi che impose»; don Ferrante, «cognominato Sconza, che nel siculo idioma suona il medesimo che Guasta», perdé tutti i suoi feudi, «mercé l’inobbedienza che usò col suo Re; ne ottenne quindi il perdono, ma non per questo dimorò nella fedeltà, poiché per sue cagioni si discostò di bel nuovo della Regia obbedienza, e preso e condannato a morte ebbe per Grazia Sovrana salva la testa», don Filippo fu celebrato «pel valore che mostrò in favor del suo Re don Ferdinando contro al Re di Portogallo, di maniera, ch’essendo bandito della Corte per cagion d’omicidio, fu liberato e venne in Grazia del suo Re»; Giacomo v «perché aveva venduto suoi feudi a Errico di Chiaramonte, pretese poi ricuperargli dal poter di quello, e gli tentò lite»; Don Livio «si delettò di vendicarsi acerbamente degli oltraggi che gli furono fatti»; ecc. ecc. Questi erano, per donna Ferdinanda, atti di valore e prove d’accortezza. Né gli Uzeda avevano litigato coi sovrani e coi rivali soltanto, ma anche tra loro stessi: don Giuseppe, nel 1684, «si casò con donna Aldonza Alcarosso, colla quale procreò a don Giovanni e a don Errico, che per la morte dei loro padri innanzi l’avo pretesero succedergli negli Stati di quello e litigarono lungo numero d’anni innanzi la Regia Corte»; don Paolo ebbe «lunghe e criminose contese con suo padregno»; Consalvo, conte della Venerata «per la morte del padre fu spogliato dal suo zio, e per aver repudiato l’infertile moglie combatté alcuni anni con suo cognato»; Giacomo vi «cognominato Sciarra, che Rissa nel tosco idioma diremmo, non puoche differenze ebbe col padre». Consalvo iii, «cognominato Testa di San Giovanni Battista, dolorò la fellonia dei figli che seguirono Federico conte di Luna, bastardo del Re Martino»; ma il più terribile di tutti fu il primo Viceré, il grande Lopez Ximenes, «che perdette l’animo dei suoi soggetti, per i vizi d’un figliuol naturale molto prepotente e di sciolti costumi: onde il padre, avendolo trovato reo et incorreggibile, con somma severità lo condannò a morte, sentenzia che si sarebbe eseguita, se il Re don Ferdinando, che ritrovavasi in Sicilia, non avesse ordinato che non si effettuisse…» Don Eugenio, di tanto in tanto, per edificazione del ragazzo, giudicava conveniente fare qualche dissertazione morale; donna Ferdinanda invece lodava tutto, ammirava tutto. Col tempo, con l’esercizio del potere, la razza battagliera erasi infiacchita: il secondo Viceré, sfidato a duello da un barone ribelle, «non puose prudentemente orecchio all’invito che questo sconsigliato giovane avevagli fatto»; la condotta dell’imbelle antenato, per la zitellona, era altrettanto lodevole quanto quella degli altri che avevano attaccato lite con tutti per niente. Ed a proposito di duelli, dove lasciare il famoso decreto di Lopez Ximenes?
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