Federico De Roberto

I Vicere


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rifugiarsi a Leonforte come l’altr’anno.

      «Voi dove andrete?» domandava a Raimondo; e il giovane che le si trovava sempre a fianco:

      «Dove andrete voi stessa!»

      Ella chinava gli occhi, con una severa espressione di biasimo, quasi offesa.

      «E vostra moglie? Vostra figlia?»

      «Parliamo d’altro!»

      Nonostante l’allarme cagionato dalla pestilenza, l’intrinsichezza delle due famiglie si strinse ancora più in quei giorni. Fersa, che era stato sempre lieto e superbo di venire al palazzo Francalanza, adesso godeva nell’esservi ricevuto con segni di particolare gradimento; non solo Raimondo, ma anche e forse più Giacomo dimostrava molto piacere in compagnia di lui e di donna Isabella: quando sua moglie andò fuori la prima volta, dopo il lutto, egli volle che facesse loro una visita; la contessa, per desiderio del marito, accompagnò la cognata.

      Da sola, Matilde forse non sarebbe andata in casa di quella donna. Non voleva chiamare gelosia il sentimento che le ispirava: se Raimondo, galante con tutte, stava attorno a costei che tutti gli uomini accerchiavano, non era già meraviglia; ella stessa non ne riceveva continue proteste di calda amicizia?… Pure, tutte le volte che donna Isabella l’abbracciava e la baciava, ella doveva farsi forza per non sottrarsi a quella dimostrazione d’affetto. Non sapeva bene rendersi conto della repulsione quasi istintiva che provava ogni giorno più forte; quando tentava di spiegarla a se stessa, l’attribuiva più che ad altro alla radicale diversità del loro carattere; alla leggerezza, all’affettazione, alla mancanza di schiettezza che le pareva scorgere in lei. Non l’aveva anch’ella udita lagnarsi, a mezze parole, con allusioni velate, dei parenti del marito e dello stesso marito; mentre ella vedeva bene, quasi invidiandola, la devozione portatale da Fersa, e udiva ripetere che la suocera la trattava meglio d’una figliuola? Andata a farle visita in compagnia della principessa, non poté accertarsene coi propri occhi?

      Donna Mara Fersa era una donna un po’ all’antica, senza ombra d’istruzione, poco fine d’educazione anche; ma molto accorta, e semplice, alla mano come una buona massaia. Aveva sperato d’ammogliare il figliuolo a modo suo; ma questi, andato una volta a Palermo e vista l’Isabella Pinto, orfana di padre e di madre, l’aveva chiesta su due piedi, innamoratissimo, allo zio materno dal quale era stata educata. Nobilissima, la Pinto; ma senza dote; aveva però ricevuto un’educazione oltremodo signorile in casa dello zio facoltoso. I Fersa, invece, benché ammessi tra i signori, nascevano mediocremente; donna Ferdinanda, estimatrice ed amica di donna Isabella, li chiamava Farsa – farsa tutta da ridere —; ma possedevano gran quantità di quattrini. Donna Mara, sulle prime, aveva tentato di opporsi a quel matrimonio; ma poiché suo figlio era cotto dell’Isabella, e questa pareva più cotta di lui, aveva finalmente consentito. Così la nuora palermitana, elegante, istruita e nobile, venne a mettere nella sua casa una rivoluzione, che ella sopportò con molta buona grazia, per amore del figlio, comprendendo di non potersi opporre ai gusti ed anche alle fantasie dei giovani. Donna Isabella, chiamandola «mamma», dimostrandole il rispetto che le doveva, pareva scontenta di lei, vergognosa della sua ignoranza e della sua semplicità. Era una cosa tanto sottile, che Matilde quasi incolpavasi di cattiveria, notandola: una specie di condiscendente compatimento verso le opinioni della suocera come per quelle di un bambino o d’un inferiore; una impercettibile esagerazione d’obbedienza, una cert’aria di sacrifizio che pareva volesse ispirare l’altrui compianto, ma che riusciva molto antipatica alla contessa.

      Per altro, questa era sicura di non dover sopportare troppo a lungo la compagnia di lei. La necessità di sistemare gl’interessi poteva solo trattenere Raimondo in Sicilia, ma forse egli avrebbe affrettata la partenza per fuggire il colera. Già alle prime voci di pestilenza, inquieta per la lontananza del padre e della bambina, ella gli aveva domandato che volesse fare; ma suo marito non si era ancora deciso. L’anno innanzi, in Toscana, udendo le notizie delle stragi di Sicilia, del pazzo terrore che regnava nell’isola, dello scioglimento d’ogni civile consorzio, aveva espresso la propria soddisfazione per essere lontano dalla «selvaggia» terra natale, dove, diceva, non lo avrebbero sicuramente capitato in tempo d’epidemia; pertanto ella era quasi sicura che sarebbero presto passati nel continente, prendendo con loro la bambina per via. Raimondo invece pareva esitante; se la pigliava, sì, con la cattiva stella che lo aveva fatto cogliere dalla pestilenza nella trappola isolana, ma diceva di non potersi mettere in viaggio adesso che il male era scoppiato, anche per riguardo della gravidanza di lei. Frattanto il barone le scriveva da Milazzo di raggiungerlo lassù, poiché il colera veniva dal Mezzogiorno, e di far presto a lasciar Catania, di non dar tempo alla gente spaventata di sbarrar tutte le strade. Così, secondo che le notizie incalzavano, che le lettere del padre le facevano maggior premura, che il pericolo di restar divisa dalla sua bambina diveniva più grave, il cuore di lei si chiudeva, dal terrore, dall’ambascia, quasi ella fosse sul punto di perdere per sempre i suoi cari; allora esortava più caldamente Raimondo a prendere una decisione qualunque, ad andar subito via:

      «Andiamo via!… Andiamo per adesso a casa mia! Non voglio lasciar sola Teresina… Saremo anche più lontani dal focolaio della peste…»

      «Ho da chiudermi in un paesuccio di mare, in tempo di colera? Per crepare come un cane? Bisognerebbe che fossi impazzito! Scrivi piuttosto a tuo padre e a tua sorella di portar qui la bambina.»

      Il barone invece tempestò, di risposta, che per niente avrebbe commesso quella sciocchezza, giacché il colera era alle porte di Catania, e ingiunse alla figlia di non perder tempo e anche di lasciar solo Raimondo se costui rifiutavasi di accompagnarla… Allora ella non seppe più che fare né chi ascoltare, smaniando all’idea di restar divisa dalla figlia e dal padre, non tollerando neppure d’abbandonare Raimondo, poiché non poteva vivere lontana né dall’uno né dagli altri, in quella triste stagione. Il giorno che il duca, fatte le valige, partì per Palermo, ella si vide perduta…

      Fino all’ultimo momento il principe aveva insistito presso lo zio affinché venisse con lui al Belvedere; il duca aveva continuato a rifiutare, adducendo gli affari che lo chiamavano alla capitale, la maggior sicurezza che c’era lì.

      «Non pensate a me,» disse ai nipoti; «io non correrò pericolo, mettetevi piuttosto in sicuro voialtri…»

      «Vostra Eccellenza stia tranquillo anche per me; ho tutto pronto per andar via al primo allarme,» rispose Giacomo. Rivolto al fratello, al quale aveva già fatto un primo invito, ripeté, in presenza di Matilde:

      «Se volete venire anche voi, mi farete piacere.»

      Raimondo non rispose. Voleva dunque davvero restar diviso da sua figlia? Poteva così tranquillamente viverne lontano, nei terribili giorni che si preparavano? Matilde piangeva, scongiurandolo di non far questa cosa; egli le rispose, seccato:

      «Non so ancora ciò che farò. A Milazzo non vado di sicuro.»

      «Lasceremo dunque sola quella creatura? Se impediranno il transito, se non potremo più vederla?»

      «Prima di tutto tua figlia non è abbandonata in mezzo a una via, ma sta col nonno e la zia. Poi se quella testa dura di tuo padre m’avesse ascoltato, a quest’ora l’avrebbe portata qui, e saremmo pronti ad andarcene tutti insieme al Belvedere, dove non c’è neppure l’ombra del pericolo… Insomma a Milazzo non vengo; già si parla di casi sospetti a Messina. Vattene sola, se vuoi.»

      E tutti gli Uzeda, quasi godendo dell’ambascia di lei, quasi per non lasciarla scappare dalle loro unghie, approvavano, dicevano che oramai ciascuno doveva restar dov’era. E suo padre la rimproverava acremente di ostinazione e d’egoismo, mentre ella credeva d’impazzire, sognando tutte le notti sogni spaventosi di lente agonie, di separazioni senza ritorno, di spietate torture; piangendo come morta la sua bambina, l’altra creatura che s’agitava nelle sue viscere; vedendo suo padre e Raimondo avventarsi l’uno contro l’altro… E un giorno terribile come una notte d’incubo il principe venne a dire che il primo caso s’era manifestato in città, che le strade si chiudevano, che bisognava subito partire pel Belvedere, dove anche i Fersa sarebbero venuti…

      La villa Francalanza, al Belvedere, era tuttavia nello stato in cui trovavasi tre mesi addietro, al momento della morte della principessa. Là si riunirono, con la rispettiva servitù, la famiglia del principe ed i suoi ospiti,