Federico De Roberto

I Vicere


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ma questa loro persuasione non riuscivano a trasfondere negli altri. Da parecchie generazioni s’erano venuti imparentando con famiglie della vera «mastra antica», ma avevano dovuto scegliere quelle ridotte a corto di quattrini, perché una ragazza nobile e ricca ad un tempo non avrebbe mai sposato un Giulente. Per giocare a pari coi baroni autentici avevano adottato tutti gli usi baronali: uno solo tra loro, il primogenito, poteva prender moglie; gli altri dovevano restar scapoli. L’abolizione del fedecommesso li aveva rallegrati, poiché in casa loro non c’era: istituito il maiorasco, avevano tentato di ottenerlo, senza riuscirvi. Nondimeno tutto era andato egualmente al primogenito: don Paolo, il padre di Benedetto, era ricchissimo, mentre don Lorenzo non possedeva un baiocco: per questo, forse, trescava coi rivoluzionari. Benedetto, un po’ per l’esempio dello zio, un po’ pel soffio dei nuovi tempi, faceva anch’egli il liberale; teneva moltissimo alla sua nascita, ma combattendo la bigotteria della nobiltà – quando la volpe non arriva all’uva! gridava la zitellona – e per questi suoi sentimenti, quantunque tutta la sostanza del padre dovesse un giorno spettargli, studiava per prendere la laurea d’avvocato. Quindi l’ira di don Blasco contro la nipote che s’arrischiava di fare all’amore senza chieder permesso a lui; e con chi? Con un Giulente, un liberale, un avvocato!

      Ora, dopo la lettura del testamento, dopo le difficoltà opposte da Chiara, dal marchese e da Ferdinando alle sue sobillazioni, il monaco si rivolse a Lucrezia. Aveva maggiore speranza di riuscire con lei poiché, per l’amore di Giulente, ella aveva interesse a ribellarsi alla famiglia; è vero che gli toccava pel momento secondare o per lo meno fingere d’ignorare l’amoretto della nipote; ma pur di complottare e di metter zeppe e di farsi valere, don Blasco passava sopra a maggiori difficoltà. Egli cominciò dunque a dimostrare a Lucrezia il torto ricevuto, le ragioni da addurre, il furto di Giacomo appena morta la madre; e le rifece i conti e la stimolò a mettersi d’accordo con Ferdinando, sull’animo del quale ella sola poteva, per contrastar poi, uniti, al fratello maggiore.

      Lucrezia, che all’opposizione dei parenti s’era impennata, come ogni Uzeda dinanzi alla contraddizione, ed aveva giurato a donna Vanna che avrebbe sposato Giulente a qualunque costo; udendo adesso il monaco parlarle dei suoi diritti, dimostrarle che ella era più ricca di quanto credeva, istigarla a far valere la propria volontà, gli dava ascolto, diffidente, tuttavia, sospettosa di qualche raggiro. La notte prendeva consigli dalla cameriera; e poiché donna Vanna la confortava a seguire il monaco, ella riconosceva, sì, che sua madre l’aveva messa in mezzo, come tutti gli altri, a profitto di due soli, e chinava il capo agli argomenti che don Blasco le ripeteva; ma sul punto d’impegnarsi a dire il fatto suo a Giacomo, la paura l’arretrava. Era cresciuta con l’idea che egli fosse d’una pasta diversa, d’una natura più fine; mentre tutti i fratelli e le sorelle si davano del tu fra loro, al primogenito toccava del voi; e il principe che l’aveva sempre tenuta a distanza, guardandola d’alto in basso, adesso, dopo la lettura del testamento, mostravasi ancora più chiuso con tutti, ma specialmente con lei. Preparata a sostener la lotta per amore di Giulente, ella voleva riserbare le sue forze pel momento buono, non sciuparle per uno scopo che le pareva secondario. Benedetto le aveva fatto sapere che, appena laureato, voleva dire fra un paio di anni, avrebbe chiesto la sua mano; e che il duca d’Oragua, tanto amico di suo zio Lorenzo, li avrebbe sicuramente sostenuti; ma che frattanto bisognava aver pazienza e prudenza, studiare di non accrescere l’animosità degli Uzeda. Consultato intorno alla quistione del testamento, egli confermava il consiglio di non far nulla contro il principe; parte per le ragioni antiche, parte per non parere ingordo della maggiore dote di lei. «Vede Vostra Eccellenza?» commentava la cameriera, udendo queste lettere che la padroncina le comunicava. «Vede Vostra Eccellenza quant’è buono? Vuol bene a Vostra Eccellenza, non ai quattrini! Un altro che avesse uccellato alla dote, che cosa avrebbe risposto? “Facciamo la lite!”» Egli era veramente un buon giovane, studioso, un po’ esaltato, infiammato dalle dottrine liberali dello zio, bruciante d’amore per l’Italia: scrivendo alla ragazza le diceva che le sue passioni erano tre: lei, la madre e la patria che bisognava redimere.

      Così anche Lucrezia, dopo aver dato ascolto alle istigazioni di don Blasco, non faceva nulla di quel che voleva lo zio: anzi, una volta che costui fu più insistente, ella rispose:

      «Perché non parla Vostra Eccellenza con Giacomo?»

      Il monaco, a quest’uscita, diventò paonazzo e parve sul punto di soffocare.

      «Ho da parlar io, ah, bestia? ah, bestiona? Vi piacerebbe, bestioni, prender la castagna con la zampa del gatto? Ah, volevate che parlassi io!… E che cavolo vi pare che me n’importi, in fin dei conti, se vi spoglia, se vi mangia tutti quanti, brancata di pazzi, di gesuiti e d’imbecilli, oh?…»

      Parlare a Giacomo, prendere le parti di quei nipoti contro quell’altro, era veramente impossibile a don Blasco. Egli si sarebbe così impegnato definitivamente, avrebbe preso realmente un partito, non avrebbe potuto più dar torto a chi prima aveva dato ragione, e viceversa; e questo era per lui un bisogno. Così per esempio il principe, solo fra tutta la «mala razza» (come il Benedettino chiamava i suoi nei momenti d’esasperazione, cioè quasi sempre), gli era stato dinanzi obbediente e sommesso, gli aveva dato ragione nella lotta contro la principessa; ora don Blasco, in cambio, gli rivoltava i fratelli e le sorelle. Ma il monaco non credeva di far male, così; scettico e diffidente, sapeva che Giacomo s’era messo con lui non già per affezione o per rispetto, ma per semplice tornaconto.

      Il principe Giacomo, infatti, aveva obbedito a sue proprie ragioni. Quasi non potesse perdonargli di non esser venuto a tempo, quand’ella l’aspettava e lo voleva, la principessa non aveva fatto festa al primogenito dei maschi, il quale aveva anche messo in pericolo, nascendo, la vita di lei. Invece di volergli tanto più bene quanto più lo aveva desiderato e quanto più le costava, donna Teresa gliene aveva voluto tanto meno. Alla nascita di Lodovico era rimasta ancora indifferente e crucciata; le sue viscere materne s’erano improvvisamente commosse per Raimondo. Così, mentre tutti gli altri parenti che non eran «pazzi» come lei, o che eran pazzi altrimenti, avevano dato a Giacomo l’idea che egli fosse da più di tutti come primogenito, come erede del titolo, la principessa aveva riposto tutto il suo affetto, un affetto cieco, esclusivo, irragionevole, sopra Raimondo. E la protezione della madre era molto più efficace di quella del padre e degli zii; perché, mentre costoro davano a Giacomo, avido di quattrini, ingordo d’autorità, soltanto vane parole, Raimondo era colmato di regali, otteneva ragione su tutti, faceva legge dei propri capricci. Così cominciarono le risse tra i due fratelli, e Raimondo, più piccolo, ne toccò; ma quando la principessa si vide dinanzi in lacrime il suo protetto, Giacomo assaggiò le terribili mani di lei che lasciavano i lividi dove cadevano. Il ragazzo s’ostinò un pezzo, fino a mutar la freddezza della madre in odio deciso; poi, accortosi di sbagliar via, mutò tattica, divenne infinto, fece da spia a don Blasco, gustò il piacere della vendetta nel vedere Raimondo picchiato dal monaco in odio alla cognata. Ma furono soddisfazioni mediocri e di corta durata: con gli anni la principessa chiuse a San Nicola il secondogenito, diede a Raimondo il titolo di conte; avara, anzi spilorcia, largheggiò soltanto col beniamino; Giacomo non ebbe mai un baiocco, e i suoi abiti cadevano a brandelli quando l’altro pareva un figurino. Se Raimondo esprimeva un’opinione, subito era secondato, o per lo meno non deriso; Giacomo non potè disporre di nulla. Uno dei suoi più lunghi desideri era stato quello di far atto di padrone, in casa, riadattando a modo suo il palazzo: la madre non gli permise di muovere una seggiola. Ella stessa aveva lavorato a mutar l’architettura dell’edificio, il quale pareva composto di quattro o cinque diversi pezzi di fabbrica messi insieme, poiché ognuno degli antenati s’era sbizzarrito a chiuder qui finestre per forare più là balconi, a innalzare piani da una parte per smantellarli dall’altra, a mutare, a pezzo a pezzo, la tinta dell’intonaco e il disegno del cornicione. Dentro, il disordine era maggiore: porte murate, scale che non portavano a nessuna parte, stanze divise in due da tramezzi, muri buttati a terra per fare di due stanze una: i «pazzi», come don Blasco chiamava anche i suoi maggiori, avevano uno dopo l’altro fatto e disfatto a modo loro. Il più grande rimescolamento era stato quello operato da suo padre, il principe Giacomo xiii, quando costui non sapeva come buttar via i quattrini; e quella «testa di zucca» di donna Teresa, invece di pensare all’economia, non s’era divertita a sciuparne degli altri in altre bislacche novità?… Giacomo voleva anch’egli ritoccare la pianta della casa, ma la madre non gli lasciò neanche attaccare un chiodo; e il Benedettino