Federico De Roberto

I Vicere


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carrucole con le quali issavano i materiali dalla corte al piano di sopra; e i guatteri, occupati ad affettar patate e a sbatter uova, scambiavano fra loro osservazioni su quei lavori:

      «Levano la scala dell’amministrazione per guadagnare spazio…»

      «Io non avrei chiuso un pezzo della terrazza.»

      «Il padrone però deve dar conto a suo fratello, essendo eredi tutt’e due.»

      «Ma il palazzo è del principe! Il contino ha un solo quartiere…»

      Il principino adesso non perdeva una parola del discorso.

      «Il contino scapperà subito fuori via… Non è fatto per star qui…»

      Il lavoro delle salse li faceva tacere tratto tratto. Luciano, con una strizzatina d’occhio, disse dopo un pezzo al compagno:

      «Ricomincia, eh?»

      «Lascialo fare! Quello è un vero signore!»

      E Luciano chinò il capo, in segno d’approvazione ammirativa. Erano tutti pel conte, in cucina, come nelle anticamere, come nelle scuderie; perché il padrone giovane non rassomigliava al maggiore, tanto era dolce di comando e largo di mano.

      «Signore davvero, di modi e di pensieri. Non come l’amico…»

      «L’amico è volpe vecchia… com’era l’amica…»

      «Che dite?» domandò il principino.

      «Niente, Eccellenza!» rispose il cuoco; e vòlto ai dipendenti: «Lavorate!» ingiunse, «senza tante ciarle…»

      «Ah, non vuoi dirmelo?»

      «Ma che cosa, Eccellenza, se parlano così, a vanvera?»

      «Ah, non vuoi dirmelo?»

      A un tratto, udendo la carrozza che entrava nel cortile, Consalvo scappò a vedere.

      Tornavano finalmente le zie Lucrezia e Matilde andate alla badìa di San Placido. Il ragazzo, dimenticati la cucina e il cuoco, corse a raggiungerle di sopra, nella camera della madre, per vedere se gli portavano nulla.

      La contessa Matilde gli diede infatti un cartoccio di dolci; ma la zia Lucrezia neppure gli badò, con tanta animazione teneva un discorso alla principessa:

      «Piangeva, capisci!… Abbiamo voluto parlare con la Badessa, che ci ha confermato ogni cosa; è vero, Matilde?… Che modo è questo!… Le messe per nostra madre…»

      «Sst…»

      La principessa fece un segno alla cognata di tacere, per riguardo del ragazzo.

      «Mamma, oggi non si mangia più?…» domandò costui.

      «Se tuo padre non è ancora venuto!… Va’, va’ a vedere se arriva.»

      Il principino comprese che lo mandavano via. A sei anni, era curioso più di don Blasco. I maneggi dello zio monaco, il continuo complottare che si faceva in quella casa, avevano destato di buon’ora la sua attenzione: dopo la morte della nonna, s’accorgeva, dal contegno dei parenti, dai discorsi dei servi, che l’avevano con suo padre, chi per una ragione e chi per un’altra, ma che nessuno ardiva prendersela direttamente con lui. Egli comprendeva tante altre cose: che la zia Ferdinanda non poteva soffrire la zia Matilde; che tra questa e suo marito c’erano dissapori: comprendeva e taceva, fingendo di non accorgersi di nulla, per non incorrere nella collera di nessuno. Infatti, lo zio don Blasco dava solenni scappellotti, la zia Lucrezia giocava anche lei a pizzicargli il braccio, specialmente quando egli andava a rovistarle la camera; ma specialmente suo padre, sempre burbero, gliene dava, alle volte, di quelle che radevano il pelo. Pertanto egli non se la diceva molto con lui, mentre invece non poteva stare lontano dalla mamma. Donna Ferdinanda, veramente, gli usava molte preferenze; ma nessuno come la principessa scusava i difetti del monello. Rabbrividendo, cadendo in convulsione se qualcuno le si metteva troppo dappresso, ella vinceva la manìa dell’isolamento soltanto per amore dei figli, si stringeva al petto e baciava furiosamente il suo Consalvo anche quanto non era troppo netto, e con tanto maggior impeto quando più si difendeva da ogni altro contatto. Da un pezzo, nata la sorellina Teresa, le carezze non erano tutte per lui; nondimeno, solo la principessa riusciva ad ottenere qualche cosa da Consalvo con le buone, per amore.

      «Va’, va’ a vedere se il babbo è tornato…»

      Il principe Giacomo rientrava in quel momento. Aveva una ciera più aggrottata del solito, e neppure salutò, entrando; Lucrezia ammutolì, alla sua vista. Egli domandò se il duca era rincasato, e udendo che no, diede ordine che servissero in tavola appena giunto lo zio. Poi se ne andò a chiudersi nel suo scrittoio col signor Marco. Consalvo restò un poco senza saper che fare, esitando tra il ritorno in cucina e una visita ai manovali. Invece, visto che la zia Lucrezia riprendeva a parlare con la mamma, salì nella camera di lei. Gli aveva proibito di entrarci perché adesso studiava il disegno d’acquarello e non voleva toccate le sue cose, specialmente pel pericolo che scoprissero le lettere di Benedetto Giulente; invece, i pezzi di colore, i piattelli da stemperare, i pennelli, la gomma, facevano gola al ragazzo. E nessuna raccomandazione o minaccia serviva a Lucrezia; se reclamava, le toccavano soprammercato i rimproveri del fratello diventato intrattabile dopo la lettura del testamento; talché il monello, quando carpiva l’occasione, faceva man bassa in camera della zia. Salito dunque lassù, a quell’ora che era sicuro di non essere sorpreso, il principino cominciò a rovistare sul tavolino, in mezzo ai disegni, nella cartiera, nel comodino. Dov’erano nascoste le cose del disegno? Forse nelle cassette più alte di quell’armadio, dov’egli non arrivava. Intanto, dal cortile, s’udì la campana che annunziava l’arrivo del duca. Egli continuò a guardarsi intorno, a cercare febbrilmente sotto il letto, sotto l’armadio, nella specchiera. Questa era una piccola tavola ricoperta di tela ricamata: sollevatone un lembo, apparve la cassetta. Lì dentro, in mezzo ai vecchi pettini, a scatole vuote di pasta di mandorle, c’era un fascio di carte annodate con un nastro rosso. Consalvo disfece il nodo e sciorinò le lettere. Improvvisamente Lucrezia apparve sull’uscio.

      «Ah!…» gridò, e slanciarsi sul nipote ed allungargli un ceffone fu tutt’uno.

      Il ragazzo cacciò uno strillo così acuto, come se lo stessero scannando.

      «T’ho detto mille volte di non toccare le cose mie! Non è possibile serbare più nulla! Sono ridotta come se fossi in piazza…»

      Accorse Vanna, la cameriera, agli urli disperati, ma aveva appena cominciato: «Signorina… lo lasci andare…» che apparve il principe.

      «E per questo alzi le mani sul bambino?»

      «Se non posso essere ubbidita!… Se non sono padrona di serbare uno spillo!…»

      Egli sollevò Consalvo da terra, lo prese per mano e disse, lentamente, guardandola bene in viso:

      «Un’altra volta, se t’arrischi di toccare mio figlio, ti piglio a schiaffi; hai capito?»

      Ella rimase un momento come stordita. Visto uscire il fratello, corse a un tratto alla porta, la chiuse sbattendola violentemente e non rispose più a nessuno dei servi che venivano a chiamarla pel desinare. Dové salire il duca a scongiurarla di aprirgli; alle raccomandazioni, alle ammonizioni dello zio, finalmente proruppe:

      «E che pazienza! Sono due mesi che mi tratta così!… Perché l’ha con me? Pel testamento di nostra madre? Fa’ così per giocar di prima? Ha dunque ragione lo zio don Blasco?… Ha sentito, ha sentito Vostra Eccellenza, che ha fatto adesso?»

      «Che ha fatto?»

      «Non vuol riconoscere il legato alla badìa di San Placido!… Abbiamo trovato Angiolina che piangeva e la Badessa che gettava fuoco e fiamme!… Vuol far lui tutte le carte, e ci tratta poi così, d’alto in basso, per avvilirci tutti quanti…»

      «Piano!… Basta, per ora…» il duca tornava a raccomandarsi, per amor della pace. «Basta!… Vieni a desinare, per ora… Ti prometto che poi gli parlerò io…»

      Raimondo non era ancora rientrato quando tutta la famiglia, con l’assistenza di don Mariano, prese posto a tavola. Lucrezia aveva gli occhi ancora rossi, teneva il capo chino, non diceva una parola; ma il principe, fattosi improvvisamente sereno in vista, rivolgeva