Emilio Salgari

Il Corsaro Nero


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ruvidamente innanzi.

      – Venite o andrete in aria anche voi, – gli disse.

      Il Corsaro, assicuratosi che non vi erano nemici, era già balzato su di un altro tetto, seguito dal conte di Lerma e da suo nipote.

      Le scariche allora si succedevano alle scariche e dei vortici di fumo s’alzavano verso la viuzza, disperdendosi lentamente pei tetti. Pareva che gli archibugieri fossero decisi a crivellare la casa del notaio, prima di abbattere la porta, sperando forse di costringere i filibustieri alla resa.

      Forse il timore che il Corsaro si decidesse a mettere in esecuzione la terribile minaccia, facendosi seppellire fra le macerie assieme ai quattro prigionieri, li tratteneva ancora dal tentare un assalto generale della casa.

      I filibustieri, trascinando con loro il notaio, che non poteva piú reggersi sulle gambe, giunsero sull’orlo dell’ultima casa, presso il palmizio.

      Sotto si estendeva un vasto giardino cinto da un alto muro, e che pareva si prolungasse in direzione della campagna.

      – Io conosco questo giardino, – disse il conte. – Esso appartiene al mio amico Morales.

      – Spero che non ci tradirete, – disse il Corsaro.

      – Al contrario, cavaliere. Non ho ancora dimenticato che vi devo la vita.

      – Presto, scendiamo, – disse Carmaux. – L’esplosione può lanciarci nel vuoto.

      Aveva appena terminato quelle parole, quando vide un lampo gigantesco seguito subito da un orribile frastuono. I filibustieri ed i loro compagni sentirono tremare sotto i loro piedi il tetto, poi caddero l’uno sull’altro, mentre intorno piovevano pezzi di macigno, frammenti di mobilia e brandelli di stoffe fiammeggianti.

      Una nube di fumo si estese sui tetti, tutto offuscando per qualche minuto, mentre verso la viuzza si udivano crollare muraglie e pavimenti fra urla di terrore e bestemmie.

      – Tuoni! – esclamò Carmaux, che era stato spinto fino alla grondaia. – Un metro piú innanzi e piombavo nel giardino come un sacco di stracci.

      Il Corsaro Nero si era prontamente alzato, barcollando tra il fumo che lo avvolgeva.

      – Siete tutti vivi? – chiese.

      – Lo credo, – rispose Wan Stiller.

      – Ma… qualcuno è qui, immobile, – disse il conte. – Che sia stato ucciso da qualche rottame?

      – È quel poltrone di notaio, – rispose Wan Stiller. – Rassicuratevi però, non è che svenuto per lo spavento provato.

      – Lasciamolo lí, – disse Carmaux. – Si trarrà d’impiccio come potrà, se il dolore d’aver perduta la sua bicocca non lo farà morire.

      – No, – rispose il Corsaro. – Vedo alzarsi delle vampe tra il fumo, e, lasciandolo qui, correrebbe il pericolo di venire arrostito. L’esplosione ha incendiate le case vicine

      – È vero, – confermò il conte. – Vedo un’abitazione che brucia.

      – Approfittiamo della confusione per prendere il largo, amici, – disse il Corsaro. – Tu, Moko, t’incaricherai del notaio.

      Stava per cacciarsi in mezzo ad un viale che conduceva al muro di cinta, quando vide alcuni uomini, armati di archibugi, precipitarsi fuori da una macchia di cespugli, gridando:

      – Fermi, o facciamo fuoco!…

      Il Corsaro aveva impugnata la spada colla destra, mentre colla sinistra aveva estratta una pistola, deciso ad aprirsi il passo; il conte lo fermò con un gesto dicendo:

      – Lasciate fare a me, cavaliere.

      Poi, facendosi incontro a quegli uomini, aggiunse – Dunque non si conosce piú l’amico del vostro padrone?

      – Il signor conte di Lerma!… – esclamarono gli uomini, attoniti.

      – Abbasso le armi, o mi lagnerò col vostro padrone.

      – Perdonate, signor conte, – disse uno di quei servi, – noi ignoravamo con chi avevamo da fare. Avevamo udito uno scoppio spaventoso e sapendo che, nelle vicinanze, dei soldati assediavano dei corsari, eravamo qui accorsi per impedire la fuga di quei pericolosi banditi.

      – I filibustieri sono ormai fuggiti, quindi potete andarvene. Vi è qualche porta nella cinta?

      – Sí, signor conte.

      – Aprite a me ed ai miei amici e non occupatevi d’altro.

      L’uomo che aveva parlato, con un cenno congedò gli armati, poi si diresse verso un viale laterale e giunti dinanzi ad una porticina ferrata, l’aprí.

      I tre filibustieri ed il negro uscirono all’aperto preceduti dal conte e da suo nipote. Il servo, che teneva fra le braccia il notaio sempre svenuto, si era fermato assieme a quello del proprietario del giardino.

      Il conte guidò i filibustieri per un duecento passi, inoltrandosi in una viuzza fiancheggiata solamente da muraglie, poi disse:

      – Cavaliere, voi mi avete salvata la vita, sono lieto di avere potuto rendervi anch’io questo piccolo servigio. Uomini valorosi come voi non devono morire sulla forca, ma v’assicuro che il Governatore non vi avrebbe risparmiato, se avesse potuto avervi in mano. Seguite questa viuzza che conduce in aperta campagna e tornate a bordo della vostra nave.

      – Grazie, conte, – rispose il Corsaro.

      I due gentiluomini si strinsero cordialmente la mano e si lasciarono scoprendosi il capo.

      – Ecco un brav’uomo, – disse Carmaux. – Se torneremo a Maracaybo non mancheremo di andarlo a trovare.

      Il Corsaro si era messo rapidamente in cammino preceduto dall’africano, il quale conosceva, forse meglio degli stessi spagnuoli, tutti i dintorni di Maracaybo.

      Dieci minuti dopo, senza essere stati disturbati, i tre filibustieri erano fuori della città, sul margine della foresta, in mezzo alla quale si trovava la capanna dell’incantatore di serpenti.

      Guardando indietro videro alzarsi fra le ultime case una nuvola di fumo rossastro, sormontata da un pennacchio di scintille che il vento trasportava sopra il lago. Era la casa del notaio che finiva di consumarsi assieme forse a qualche altra.

      – Povero diavolo, – disse Carmaux. – Morrà dal dispiacere: la casa e la sua cantina! È un colpo troppo grosso per un avaraccio come lui!

      Si arrestarono alcuni minuti sotto la cupa ombra d’un gigantesco simaruba, temendo che nei dintorni si trovasse qualche banda di spagnuoli mandata ad esplorare le campagne; poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava nella foresta, si cacciarono sotto le piante marciando rapidamente. Venti minuti bastarono per attraversare la distanza che li separava dalla capanna. Già non distavano che pochi passi, quando ai loro orecchi giunse un gemito.

      Il Corsaro si era arrestato, cercando di discernere qualche cosa fra la profonda oscurità proiettata dalle alte e fitte piante.

      – Tuoni! – esclamò Carmaux. – È il nostro prigioniero che abbiamo lasciato legato al tronco dell’albero. Io mi ero dimenticato di quel soldato!

      – È vero, – mormorò il Corsaro.

      Si avvicinò alla capanna e scorse lo spagnuolo ancora legato.

      – Volete farmi morire di fame? – chiese il poveraccio. – Allora dovevate appiccarmi subito.

      – È venuto nessuno a ronzare in questi dintorni? – gli chiese il Corsaro.

      – Non ho veduto che dei vampiri, signore.

      – Và a prendere il cadavere di mio fratello, – disse il Corsaro, volgendosi verso 1’africano.

      Poi avvicinandosi al soldato che si era messo a tremare, temendo che la sua ultima ora fosse per scoccare, lo liberò dalle corde che lo imprigionavano, dicendogli con voce sorda:

      – Io potrei vendicare su di te, prima di tutti, la morte di colui che andrò a seppellire in fondo all’oceano, e dei suoi disgraziati compagni