Emilio Salgari

Il re del mare


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come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori.

      Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta.

      Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull’albero istesso.

      Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria.

      – Dentro colle spingarde! – gridò Yanez che li aveva lasciati fare.

      Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello.

      Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto.

      Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti.

      I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue.

      La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem.

      Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d’acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare.

      Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo.

      I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un’altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe.

      – Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, – disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. – Ciò v’insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem.

      La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più.

      Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume.

      – Se ne sono andati, – disse Yanez. – Speriamo che ci lascino tranquilli.

      – Ci aspetteranno nel fiume, signore, – disse Sambigliong.

      – E vi daranno nuovamente battaglia, – aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze.

      – Lo credi? – chiese il portoghese.

      – Ne sono certo, signore.

      – Daremo loro un’altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d’importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong?

      – Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo.

      – Quanti uomini abbiamo perduto? – chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo.

      – Ve ne sono otto nell’infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti.

      – Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! – esclamò Yanez. – Orsù, così è la guerra, – aggiunse poi con un sospiro.

      Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine:

      – La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

      3. Sul Kabatuan

      L’acqua già da cinque ore continuava a montare nella baia e a poco a poco aveva coperto interamente il banco, su cui la Marianna si era incagliata.

      Era quindi quello il buon momento per cercare di liberarsi e la cosa non sembrava dovesse essere molto difficile, poichè i marinai avevano rimarcato un leggero spostamento della ruota di prua. Il veliero non galleggiava ancora; tuttavia nessuno disperava di riuscire a levarlo da quel cattivo passo, aiutandolo con qualche sforzo.

      Sbarazzata la coperta dei cadaveri che la ingombravano, essendo molti dayaki caduti sul castello di prora sotto le micidiali scariche delle spingarde ed a mezza nave, e, ricollocate nelle casse le pericolosissime palle d’acciaio, che avevano arrestato così bene l’attacco dei bellicosi isolani, i Tigrotti di Mompracem si misero alacremente all’opera sotto la direzione di Yanez e di Sambigliong.

      Furono gettati due ancorotti a sessanta passi dalla poppa, su un buon fondo e le gomene passate all’argano onde trarre indietro la nave ed aiutare l’azione della marea, poi le vele furono girate in modo che la spinta del vento avvenisse non più verso la prora.

      – All’argano, ragazzi! – gridò Yanez, quando tutto fu pronto. – Noi ci leveremo presto di qui.

      Già qualche scricchiolo si era udito sotto la ruota, segno evidente che l’acqua tendeva, aumentando sempre, a sollevare la carena.

      Dodici uomini si erano precipitati verso l’argano, mentre altrettanti si erano gettati sulle funi collegate ai due ancorotti, affinchè lo sforzo fosse maggiore, e, al comando del portoghese, i primi avevano cominciato a spingere energicamente le aspe.

      Avevano dato appena quattro o cinque giri all’argano, quando la Marianna scivolò, per modo di dire, sul banco su cui s’appoggiava, virando lentamente sul tribordo, per l’azione del vento che gonfiava fortemente le due immense vele.

      – Eccoci liberi! – aveva esclamato Yanez, con voce giuliva. – Forse sarebbe bastata la sola marea a trarci di qui. Che bella sorpresa pel pilota, quando si risveglierà. Salpate gli ancorotti, contrabbracciate le vele e avanti, diritti verso il fiume.

      – Lo imboccheremo senza attendere l’alba? – chiese Sambigliong.

      – È largo e profondo, mi ha detto Tangusa, e non è interrotto da banchi, – rispose Yanez. – Preferisco attraversare la foce ora e sorprendere i dayaki, che non s’aspettano di certo di vederci così presto.

      Con uno sforzo poderoso i marinai dell’argano avevano strappati dal fondo i due ancorotti, mentre i gabbieri avevano orientato rapidamente le due vele e i fiocchi del bompresso. Tangusa, che non aveva lasciata la tolda, si era messo alla barra del timone, essendo il solo che conoscesse la foce del Kabatuan.

      – Conducici solamente entro il fiume, mio bravo ragazzo, – gli aveva detto Yanez. – Poi penseremo noi a guidare la Marianna e tu andrai a riposarti.

      – Oh signore, non sono già un fanciullo, – aveva risposto il meticcio, – per aver bisogno d’un immediato riposo. Quel balsamo prodigioso, sparso sulle mie ferite da Kickatany, mi ha calmato i dolori.

      – Ah! – esclamò ad un tratto Yanez, mentre la Marianna, girato prudentemente il banco, s’avanzava verso il fiume, – tu non mi hai ancora narrato come sei caduto nelle mani dei dayaki e il perchè ti hanno martirizzato.

      – Non mi avevano lasciato il tempo, quei furfanti, di finire di raccontarvi la mia triste avventura, – rispose il meticcio forzandosi a sorridere.

      – Venivi dal kampong di Tremal-Naik, quando ti catturarono?

      – Sì, signor Yanez. Il mio padrone mi aveva incaricato di raggiungere le rive della baia per guidarvi sul fiume.

      – Era certo dunque che noi non