che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime.
Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso.
– Qualche fenomeno, capitano? – chiese Sambigliong. – È impossibile che quelle siano lucciole.
– Nemmeno io lo credo, – rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più.
Tangusa che aveva affidato momentaneamente la barra a uno dei timonieri, era pure accorso, allarmato da quelle esclamazioni.
– Sapresti dirmi di che cosa si tratta? – chiese Yanez, vedendolo.
– Quelli sono fuochi che scendono il fiume, signore, – rispose il meticcio.
– È impossibile! Se ognuno di quei punti luminosi segnalasse una barca, ve ne dovrebbero essere delle migliaia e non credo che i dayaki ne posseggano tante, nemmeno riunendo tutte quelle che si trovano sui fiumi bornesi.
– Eppure sono fuochi, – replicò Tangusa.
– Accesi dove?
– Non so, signore.
– Su dei tronchi d’albero?
– Non saprei dirvelo.
– Il fatto è che quei fuochi s’avvicinano, capitano, e che la Marianna potrebbe correre il pericolo d’incendiarsi.
Yanez lanciò un «per Giove!» tuonante che fece stupire Sambigliong, che non l’aveva mai veduto prima d’allora uscire dai gangheri.
– Che cos’hanno preparato quelle canaglie? – esclamò il bravo portoghese.
– Capitano, prepariamo per maggior precauzione le pompe.
– E arma i nostri uomini di buttafuori e di manovelle per allontanare quei fuochi. Questi maledetti selvaggi cercano d’incendiare la nostra nave. Su lesti, Tigrotti miei: non vi è tempo da perdere.
Quelle centinaia e centinaia di punti luminosi ingrandivano a vista d’occhio, trascinati dalla corrente e coprivano un tratto immenso di fiume.
Scendevano a gruppi, danzando con un effetto meraviglioso, che in altre occasioni Yanez avrebbe certamente ammirato, ma non in quel momento. Giravano su loro stessi, seguendo i gorghi, formando delle linee circolari e delle spirali, che poi bruscamente si rompevano, oppure delle linee rette che poi diventavano delle serpentine.
Un gran numero filava lungo le rive; molti invece, anzi i più danzavano in mezzo, essendo la corrente ivi più rapida.
Dove posassero nessuno poteva dirlo, essendo la notte oscura, anche a causa dell’ombra proiettata dalle piante altissime che coprivano le rive. Certo però dovevano ardere su dei minuscoli galleggianti.
Tutto l’equipaggio, armatosi frettolosamente di buttafuori, di pennoni, di aste e di manovelle, si era disposto lungo i fianchi della Marianna per allontanare quei fuochi pericolosi. Alcuni erano scesi nella rete delle dolfiniere del bompresso e nelle bancazze per poter meglio agire.
– Sempre in mezzo al fiume! – aveva gridato Yanez a Tangusa, che aveva ripresa la barra del timone. – Se prenderemo fuoco, faremo presto a poggiare sull’una o sull’altra riva.
La flottiglia giungeva a ondate, correndo addosso alla Marianna la quale s’avanzava lentamente essendo il vento debolissimo.
– Recatemi uno di quei fuochi, – disse Yanez ai malesi che si erano calati nella rete della dolfiniera, la cui estremità inferiore sfiorava quasi l’acqua.
Tutti i marinai si erano messi all’opera, vibrando furiosi colpi di buttafuori e di manovelle su quei fuochi galleggianti che ormai circondavano la Marianna.
Un malese, presone uno, lo aveva recato a Yanez. Si componeva d’una mezza noce di cocco, piena di bambace inzuppato d’una materia resinosa e attaccaticcia che ardeva meglio dell’olio vegetale, di cui fanno ordinariamente uso i bornesi al pari dei siamesi.
– Ah! Bricconi! – aveva esclamato il portoghese. – Ecco una trovata meravigliosa che io non avrei mai immaginata! Come sono diventati furbi, da un momento all’altro, questi dayaki! Tigrotti, date dentro a tutta lena; se questo cotone s’attacca ai madieri, arrostiremo come anitre allo spiedo.
Aveva gettato via il guscio di cocco e si era slanciato a prora, dov’era maggiore il pericolo, perchè quei fuochi investendo il tagliamare si rovesciavano in gran numero e la materia attaccaticcia e resinosa ond’era imbevuto il cotone poteva attaccarsi al fasciame, dove avrebbe trovato buon alimento nel catrame che lo copriva.
I Tigrotti, che avevano compreso il gravissimo pericolo che correva il veliero, non risparmiavano i colpi. Specialmente quelli che si trovavano nella rete della dolfiniera ed a cavalcioni delle trinche, avevano un bel da fare a rovesciare quei minuscoli galleggianti, che giungevano sempre a ondate, scivolando e capovolgendosi lungo i fianchi della Marianna. Tuttavia dei fuochi di cotone di quando in quando s’appiccicavano al fasciame, ed il catrame subito prendeva fuoco, sviluppando un fumo denso ed acre.
Guai se quel legno avesse avuto un equipaggio poco numeroso! Le tigri di Mompracem fortunatamente erano bastanti per sorvegliare tutti i bordi e, quando il fuoco cominciava a manifestarsi, le pompe lo spegnevano di colpo con un abbondante getto d’acqua.
Quella strana lotta durò una buona mezz’ora, poi i pericolosi galleggianti cominciarono a diradarsi e finalmente cessarono di sfilare, scomparendo verso il basso corso del fiume.
– Che ci preparino ora qualche altra sorpresa? – disse Yanez che aveva raggiunto il meticcio. – Vedendo il loro criminoso tentativo andato a male, escogiteranno qualche cosa d’altro. Che cosa ne dici, Tangusa?
– Che noi non giungeremo all’imbarcadero del kampong, senza che i dayaki ci diano una seconda battaglia, signor Yanez, – rispose il meticcio.
– La preferirei a qualche altra sorpresa, mio caro. Finora però non vedo alcuna scialuppa.
– Non siamo ancora giunti, anzi tarderemo assai con questo vento così debole. Se non aumenta, invece del mezzodì dovremo faticare fino alla sera di domani.
– E ciò mi rincrescerebbe. Ohè, Tigrotti, aprite gli occhi e tenete le armi in coperta. I tagliatori di teste ci spiano di certo.
Accese una sigaretta e si sedette sul capo di banda di poppa, per meglio sorvegliare le due rive.
La Marianna, sfuggita miracolosamente a quel secondo pericolo, s’avanzava sempre più lenta, essendo scemata la brezza.
Nessun rumore si udiva sulle rive, che erano sempre coperte da alberi immensi che stendevano i loro rami mostruosi sul fiume, rendendo maggiore l’oscurità, eppure nessuno dubitava che degli occhi seguissero nascostamente il veliero.
Era impossibile che i dayaki, dopo quel tentativo che per poco non riusciva, avessero rinunciato all’idea di distruggere quella piccola sì, ma poderosa nave che aveva inflitto loro quella sanguinosa sconfitta.
Altre cinque o sei miglia erano state guadagnate, senza che alcun nuovo avvenimento fosse accaduto, quando Yanez scorse, sotto le foreste, scintillare dei punti luminosi che apparivano e scomparivano con grande rapidità.
Pareva che degli uomini muniti di torce corressero disperatamente fra gli alberi, scomparendo subito in mezzo ai cespugli. Poi dei sibili si udivano in varie direzioni che non dovevano essere mandati da serpenti.
– Sono segnali, – disse il meticcio, prevenendo la domanda che Yanez stava per rivolgergli.
– Non ne dubitavo, – rispose il portoghese, che ricominciava ad inquietarsi. – Che cosa ci prepareranno ora?
– Una sorpresa non migliore dell’altra di certo, signore. Ci vogliono impedire a qualunque costo di giungere all’imbarcadero.
– Comincio ad averne le tasche piene, – disse Yanez. – Almeno si mostrassero e ci attaccassero risolutamente.
– Sanno che siamo forti e che non manchiamo di artiglierie, signore, ed un assalto diretto non lo tenteranno.
– Eppure sento