Emilio Salgari

Il tesoro della montagna azzurra


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nulla fosse accaduto, aveva ripreso il suo posto presso il timone, sebbene non fosse necessaria alcuna manovra, poiché la calma non si era rotta nemmeno con il cadere della notte e la zattera rimaneva immobile, con la sua vela pendente tristemente lungo l’albero. La notte trascorse senza alcun altro avvenimento degno di nota. Se però il bosmano avesse meglio sorvegliato, avrebbe potuto scorgere dei corpi umani scivolare con cautela fra gli oggetti ingombranti il galleggiante e svegliare gli uomini che dormivano e scambiarsi delle rapide parole. Il capitano si era addormentato e lui, non volendo lasciare quel posto, sempre con la speranza che un po’ di brezza si alzasse di momento in momento, non aveva fatta più alcuna escursione verso prora, sicché quelle misteriose manovre gli erano sfuggite. D’altronde una parte dei marinai aveva ripreso il suo posto, fingendo sempre di dare la caccia ai pesci che mancavano invece assolutamente. Verso le sette, il capitano si svegliò e l’intero equipaggio avanzò in gruppo compatto verso poppa, capitanato dal pilota dell’Andalusia, un pezzo di gigante, forte come un toro, che aveva nelle vene più sangue indiano che europeo. Apparentemente nessuno era armato; era però possibile che sotto le casacche avessero, se non delle scuri, almeno i loro coltelli di manovra.

      – Che cosa volete? – chiese il capitano, sorpreso di vedere i suoi fedeli marinai avanzare verso di lui in atteggiamento minaccioso, mentre il bosmano scivolava sotto la tenda per avvertire don Pedro e Mina di tenere pronti i fucili.

      – Veniamo a reclamare la colazione, comandante, – rispose Hermos con voce decisa. – Sono due giorni che non mangiamo.

      – Avete preso dei pesci la notte scorsa? Portateli qui e li divideremo in parti eguali.

      – Quali? Senza carne sugli ami non si possono catturare. Voi lo sapete meglio di me.

      – E così?

      – Io dico che abbiamo bisogno di carne per sfamarci. Non possiamo contare né sulla pesca, né sulla caccia.

      Don Josè era diventato pallidissimo e ira e indignazione gli erano balenate nello sguardo. Aveva ormai compreso che cosa stavano per chiedere i suoi marinai. Non volle però dare la soddisfazione di avere indovinato lo scopo di quella riunione. Con uno sforzo supremo si contenne, incrociò le braccia sul petto e fissando ben in viso il pilota:

      – Non so che cosa tu voglia, Hermios, – disse con voce abbastanza tranquilla.

      – Un altro al vostro posto mi avrebbe perfettamente compreso, senza chiedere ulteriori spiegazioni. Noi abbiamo fame.

      – E io non meno di te, – ribatté il capitano con una certa violenza.

      – E allora, comandante, si ricorre ai mezzi estremi. Si tratta di perderne uno, mettiamo anche due, per salvarne tredici o quattordici, – disse il pilota. – Hanno fatto così a bordo della zattera della Medusa e mio nonno ha potuto così ritornarsene in patria.

      – Miserabile! – esclamò con voce soffocata il capitano. – Questa non è la zattera della Medusa e c›è qui ancora un comandante per tenere a freno un equipaggio. Piuttosto la morte, che assistere alle spaventose scene svoltesi su quel rottame.

      – La fame non ragiona, signore, – disse John, facendosi a sua volta avanti. – Poiché voi non potete darci da mangiare, lasciate che ci procuriamo noi dei viveri come possiamo.

      – Anche tu, John, vorresti diventare un antropofago?

      – Siamo nel paese dei cannibali, capitano! – gridò Emanuel.

      – Decidetevi, comandante, – disse Hermos. – Siamo impazienti di decidere.

      – Con una estrazione a sorte?

      – Si potrebbe farne anche a meno, – rispose il pilota, con un cinico sorriso. – Prenderemo intanto uno di quelli che sono stati la causa di questo disastro. Senza la loro presenza a bordo dell’Andalusia, noi non ci troveremmo in queste condizioni. Comincino essi a fornirci i mezzi necessari per vivere. Se le loro carni non basteranno, verrà la nostra volta e non ci lamenteremo.

      – Mi spiegherai meglio queste oscure parole, – disse il capitano alzando minacciosamente la destra.

      – Badate, capitano, che qui noi siamo tutti d’accordo, – rispose il pilota facendo un passo indietro e cacciando una mano dentro la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e che probabilmente nascondeva il coltello.

      – Spiegati meglio, miserabile! – tuonò don Josè.

      – Si diceva dunque che qui ci sono delle persone che non hanno mai fatto parte dell’equipaggio dell’Andalusia e che per avidità d’oro ci hanno condotti alla rovina.

      Don Pedro e Mina che stavano dietro il capitano, avevano mandato un grido d’angoscia; poi il primo si era scagliato verso il miserabile, chiedendogli:

      – Sono io, dunque, che tu vorresti immolare alla tua fame, è vero?

      – No, l’equipaggio preferirebbe vostra…

      Il pilota non poté finire la frase. La destra del capitano era caduta sul viso del furfante con tale violenza che parve lo schianto di un albero. L’uomo girò due volte su stesso come una trottola, poi stramazzò a terra, sputando, insieme ad una boccata di sangue anche alcuni denti. Un urlo di furore si alzò fra l’equipaggio. I coltelli da manovra fino allora nascosti nelle fasce o sotto le casacche, scintillarono sinistramente ai raggi del sole. Nello stesso momento Reton balzava fuori dalla tenda portando quattro carabine e gridando:

      – A voi capitano! A voi, don Pedro! Prendete, señorita! Sparate senza misericordia su queste canaglie!

      Don Josè aveva afferrato la carabina che il bravo mastro gli porgeva e l’aveva puntata risolutamente contro i ribelli gridando con accento terribile:

      – Indietro e giù le mani, o faccio fuoco!

      L’alta statura del comandante, la collera intensa che traspariva dal suo viso, l’autorità non ancora del tutto perduta e forse più di tutto l’accento imperioso, avevano trattenuto i ribelli. E poi non avevano davanti soltanto un uomo. Anche Pedro, Mina e il bosmano avevano caricate precipitosamente le carabine, dirigendo le canne verso il gruppo.

      – Mi avete inteso? – gridò don Josè, vedendo che i marinai non si decidevano a lasciare le armi.

      Il pilota, dopo aver proferito alcune bestemmie, si era alzato facendo scattare, con un colpo secco, la navaja che teneva nascosta nella fascia, una splendida arma spagnola lunga quasi due piedi.

      – Non cedete, camerati! – aveva gridato a sua volta.

      Don Josè gli appoggiò la canna della carabina sul petto:

      – Se pronunci una sola parola, sei morto! – esclamò.

      I marinai, credendo che gli assaliti si preparassero a sparare, erano indietreggiati, urtandosi confusamente. Reton si era lanciato verso di loro, impugnando il fucile per la canna e facendolo roteare come una mazza urlando:

      – Via di qui, canaglie!

      I marinai che erano in coda si erano già sbandati, scappando a destra e a sinistra. A un tratto echeggiò un urlo acuto, straziante:

      – Aiuto!

      A babordo della zattera si era udito un tonfo. Qualcuno nella fretta di fuggire era inciampato contro qualche gomena o contro un altro ostacolo e doveva essere caduto in mare. Quel grido giungeva a buon punto, poiché don Josè stava per premere il grilletto e fulminare il pilota. Tutti si erano precipitati verso il margine della zattera scordando subito la fame e lasciando sfumare le loro idee bellicose. Perfino Hermos, troppo contento di essere sfuggito a una morte certa, era accorso seguito da don Josè, da don Pedro e da Mina. Un uomo era caduto in acqua e si teneva disperatamente aggrappato all’orlo della zattera, gemendo e urlando spaventosamente. Attorno a lui la spuma che rimbalzava contro le travi e i barili si tingeva di rosso. Il disgraziato aveva gli occhi dilatati da un terrore impossibile a descriversi e il viso orribilmente sconvolto. Reton, che era giunto per primo, afferrò il marinaio per le braccia e lo trasse sulla zattera. Un urlo di orrore era sfuggito da tutti i petti. Reton stesso lo aveva lasciato cadere, indietreggiando terrorizzato.

      – Quest’uomo