Emilio Salgari

La crociera della Tuonante


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non finirà forse male per lui… per lui solo, vè! Per gli altri non rispondo. Credo che domani faranno quattro salti sotto il pennone di maestra con un buon laccio al collo… Ah, diavolo! bisognerebbe salvarlo Hulbrik.... Sì, salvarlo! ma come?»

      Ad un tratto si battè la fronte così forte, che Piccolo Flocco credette per un momento si fosse sparata una pistolettata.

      «E così, mastro?» chiese il gabbiere un po’ spaventato. «Vuoi ammazzarti?»

      «Un’idea!…»

      Saltata fuori con quel pugno, che avrebbe sfondata la fronte di qualunque altro uomo che non fosse bretone?»

      «È un’idea magnifica. Senti: ti ricordi come salvammo il Baronetto proprio mentre gl’Inglesi stavano per appiccarlo?»

      «Lo ricordo benissimo. Fu il coltello del carnefice di Boston che gl’impedì di rompersi l’osso del collo.»

      «Và a chiamarmi quel brav’uomo e conducilo a prora. Lesto, Piccolo Flocco.»

      «Come uno scoiattolo,» rispose il gabbiere.

      Il mastro aspirò una buona boccata d’aria marina, diede uno sguardo alle vele ed un altro alla baleniera, che guizzava rapidissima, sotto la battuta di dodici remi, verso le navi americane che s’avanzavano lentamente, essendo il vento debolissimo. Tirò fuori la sua storica pipa, ancora intatta malgrado le tante avventure provate dal suo proprietario, la caricò per bene, e dopo averla accesa, andò a sedersi sul pezzo favorito, il pezzo da caccia prodiero di babordo.

      «Forse ho risolto un gran problema,» mormorò, dopo essersi avvolto in una nuvola di fumo. «Il Baronetto salterà, ma bà!… Al vecchio mastro molte cose si perdonano.»

      5. Le quattro esecuzioni

      Cinque minuti dopo, Piccolo Flocco montava sul castello di prora in compagnia d’un uomo di mezza età, assai barbuto e molto robusto: era il carnefice di Boston che i lettori dei Corsari delle Bermude non avranno dimenticato.

      «Mio povero amico,» disse Testa di Pietra al poco simpatico uomo, io vi avevo promesso, arrolandovi fra i marinai della corvetta, di farvi lasciare per sempre tranquilli i vostri lacci più o meno insaponati; ma sono accaduti qui certi fatti che richiedono il vostro aiuto.

      «So di che si tratta,» rispose il carnefice con un mesto sorriso.

      «Piccolo Flocco mi ha spiegato tutto.»

      «Col comandante non v’è da scherzare, e sarete purtroppo costretto a riprendere domani mattina l’antico mestiere.»

      «Dite l’infame mestiere.»

      «Questo non è il momento di discutere. Nella vostra cassa suppongo che avrete una buona scorta di corde da appiccare.»

      «Sette o otto.»

      «Bastano quattro. Tre li manderete diritti all’altro mondo a vedere se per caso infuria anche là la guerra a colpi di crani di morti, di stinchi e di costole; ma il quarto lo salverete, sventrando il laccio come faceste quella volta per il signor Mac-Lellan. Che mi rispondete, signor carnefice di Boston?»

      «Non mi chiamate più così.»

      «Vi chiamerò allora mastro Impicca. Vi va?»

      Il carnefice alzò le spalle e sorrise dicendo:

      «Farò come volete. Ma se ne accorgerà il comandante?»

      «Non ve ne occupate: quando quel povero giovane sarà caduto mezzo strangolato, penserò io a chieder la sua grazia. Diamine!… Quel mangiatore di salsicciotti ha pur fatto qualche cosa per noi durante l’assedio di Boston. Se l’operazione, come spero, riuscirà, vi prometto un pizzico di sterline: la mia paga d’un mese.»

      L’uomo barbuto scosse violentemente la testa esclamando:

      «Da voi dell’oro? Da voi che foste il primo uomo a stringermi la mano? No, Testa di Pietra; gettatelo piuttosto ai pesci.»

      «Ce lo berremo allora in compagnia di Piccolo Flocco. I pesci non hanno mai avuto bisogno di moneta.»

      «Siamo intesi,» rispose mastro Impicca. (D’ora innanzi lo chiameremo così anche noi.) Diede una buona stretta di mano a quel mattacchione di Testa di Pietra e discese silenziosamente la scaletta del castello, scomparendo fra le tenebre.

      «Uhm!» fece il giovane gabbiere quando furono soli. «T’impegni in una avventura che non si sa come può finire.»

      «Se il comandante si accorgerà del tiro, mi faccia fucilare, non impiccare,» rispose il Bretone, riaccendendo la pipa. «Ma io conosco il Baronetto e son sicuro che ci farà una risata… Ecco la baleniera del signor Howard che torna. Che anche sulle navi americane penzolino domani alla brezza dei grappoli umani?»

      S’ingannava. Nessun soldato o marinaio tedesco o inglese era stato scovato a bordo della piccola squadra. Lord Clinton, grande amico del marchese d’Halifax, non si era occupato che della Tuonante, per far saltare in pieno Atlantico il terribile Corsaro e tutta la sua ciurma.

      «Mastro Impicca non avrà gran lavoro,» disse Testa di Pietra a Piccolo Flocco. «Furfante di Marchese! Era proprio con noi che l’aveva! Ah, se mi cadesse fra le mani… Non hai udito che una grande tempesta, scoppiata nell’Atlantico settentrionale, ha sgominato la flotta di lord Dunmore?»

      «E che importa a noi della squadra di lord Dunmore?»

      «Importa perché insieme con le sue navi si è imbarcata la fregata del marchese d’Halifax. Quella nave doveva essersi fermata al largo per riparare i suoi danni e turare soprattutto i suoi buchi. Ora si dice che sorpresa dal ciclone, che devasta da più settimane le coste della Virginia, non abbia potuto raggiungere le navi di lord Howe, e che cerchi un rifugio verso il sud invece che verso il nord. Mi hai capito?»

      «Non sono sordo.»

      «Allora andiamo a bere un gocciolino nella mia cabina, e poi andremo a trovare mastro pirra pirra.»

      «O meglio paca paca,» disse il gabbiere. «T’ha fatto pagare tanto alla taverna delle Trenta corna di bisonte!»

      «Tuttavia non sono né più ricco né più povero di prima.»

      Attraversarono silenziosamente la coperta, vegliata solamente da un drappello di marinai, poiché non vi era bisogno di eseguire nessuna manovra, essendo la brezza sempre debolissima, e scesero nella batteria, dove si trovavano i quattro prigionieri, guardati da quattro uomini armati di fucili colle baionette inastate. Una grossa lanterna illuminava il luogo, proiettando qua e là luci e ombre strane.

      «Camerati, lasciatemi parlare con quell’uomo,» disse il Bretone indicando mastro pirra pirra, il quale stava seduto su un basso sgabello coi ferri alle mani e ai piedi.

      Non sembrava gran che preoccupato della sorte che lo attendeva, ed anche i suoi compagni si mantenevano assolutamente tranquilli, come se si fossero già rassegnati ai tristi casi della guerra. D’altronde, lasciando i loro paesi soggetti a piccoli principi tedeschi, grandi arrolatori di gioventù, sapevano bene che non tutti sarebbero ritornati vivi.

      Hulbrik, vedendosi dinanzi il Bretone, spalancò gli occhi, lo guardò fisso con un lampo di speranza e disse:

      «Tu, patre, afere fatto bene fenire a trofarmi.»

      «Perché?» chiese Testa di Pietra.

      «Io domani essere morto. Io afere mie tasche trenta sterline. Te le lascio, patre. Io non federe più mai mia bionda fanciulla,» aggiunse il disgraziato con un lungo sospiro. «Mio cuore Gridare, Gridare suo nome… Povera Rita! Io dofevo sposarla dopo la guerra: ora tutto crollato intorno a me. Notte piombata, notte oscura, popolata di pestie alate che Gridano: Hulbrik, sei morto!»

      «Povero giovane!» sospirò Piccolo Flocco, passandosi il dorso di una mano sugli occhi.

      Testa di Pietra cercava di mostrarsi duro, ma era costretto a fare degli sforzi per non imitare il giovane gabbiere. Avevano un cuor d’oro que’ due Bretoni che né le crude battaglie né gli spaventosi abbordaggi avevano potuto guastare.

      Il Tedesco stette un momento silenzioso, colla testa