Emilio Salgari

La regina dei Caraibi


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poi s’arrestò dinanzi ad una galleria sotterranea.

      «Siamo a livello della strada,» disse. «Non avete da fare altro che camminare sempre dritti.»

      «Sarà vero quello che voi dite, ma noi non vi lasceremo. Siete pregato di andare innanzi,» disse il Corsaro.

      «Il vecchio trama qualche cosa,» mormorò Carmaux. «È già la terza volta che cerca di piantarci.»

      Il signor de Ribeira, quantunque di malavoglia, si era inoltrato in un sotterraneo basso e stretto.

      L’umidità era copiosissima. Dalle vôlte cadevano dei goccioloni e le pareti erano tutte bagnate. Si sarebbe detto che sopra scorreva qualche torrente o qualche fiumicello; buffi d’aria giungevano dall’oscurità, minacciando ad ogni istante di spegnere le candele.

      Don Pablo si avanzò per circa cinquanta passi, poi s’arrestò bruscamente, mandando un grido. Quasi nell’istesso momento le candele si spensero e l’oscurità piombò nella galleria.

      «Il Corsaro si era slanciato per impedire a don Pablo di allontanarsi. Con suo grande stupore non trovò nessuno dinanzi a sè.

      «Dove siete?» gridò. «Rispondete o faccio fuoco!»

      Un colpo sordo che pareva fosse stato prodotto da una porta massiccia che si chiudeva, rimbombò a pochi passi.

      «Tradimento!» gridò Carmaux.

      Il Corsaro aveva puntata una pistola. Un lampo ruppe le tenebre, seguito da uno sparo.

      «Il vecchio è scomparso!» gridò il signor di Ventimiglia. «Questo tradimento dovevo aspettarmelo.»

      Alla luce della polvere accesa, aveva veduto a pochi passi una porta la quale sbarrava la galleria. L’intendente del duca, approfittando dell’oscurità, doveva averla chiusa dopo averla varcata.

      «Accendete un lume, una miccia, un pezzo d’esca, qualche cosa insomma.» disse il Corsaro.

      «Ho trovato una candela, padrone,» disse il negro. «Deve essere caduta dal doppiere.»

      Wan Stiller estrasse l’acciarino ed un pezzo d’esca ed accese la candela.

      «Vediamo» disse il Corsaro.

      S’accostò alla porta e la esaminò attentamente. S’avvide subito che da quella parte non v’era alcuna speranza d’uscita. Era massiccia, coperta da grosse lastre di bronzo, una vera porta corazzata. Per sfondarla ci sarebbe voluto un pezzo d’artiglieria.

      «Il vecchio ci ha rinchiusi nel sotterraneo, – disse Carmaux. – Nemmeno la scure di compare sacco di carbone potrebbe sfondarla.

      «La ritirata non c’è forse ancora stata tagliata, – disse il Corsaro. – Affrettiamoci a ritornare nella casa del traditore.

      Rifecero la via percorsa, salirono la scala a chiocciola e giunsero all’uscita del passaggio segreto. Colà però li attendeva una brutta sorpresa.

      Il quadro era stato ricollocato a posto ed avendolo il Corsaro percosso colla lama della spada, aveva dato un suono metallico.

      «Una parete di ferro anche qui!» mormorò egli. «La faccenda comincia a diventare inquietante.»

      Stava per volgersi verso Moko onde dargli il comando di assalire il quadro a colpi di scure, quando udì delle voci.

      Alcune persone parlavano dietro il quadro.

      «I soldati?» chiese Carmaux. «Per le corna di Belzebù!»

      «Taci,» disse il Corsaro.

      Due voci si udivano: una pareva d’una giovane donna, l’altra quella d’un uomo.

      «Chi sono costoro?» si chiese il Corsaro.

      Accostò un orecchio alla parete metallica e si pose in ascolto.

      «Ti dico che il padrone ha rinchiuso qui dentro il gentiluomo,» diceva una voce di donna.

      «È un gentiluomo terribile, Yara,» rispose la voce dell’uomo. «Esso si chiama il Corsaro Nero.»

      «Non lo lasceremo perire.»

      «Se noi aprissimo, il padrone sarebbe capace d’ucciderci.»

      «Non sai che i soldati sono giunti?»

      «So che occupano le viuzze vicine.»

      «Lasceremo noi assassinare quel bel gentiluomo?…»

      «Vi ho detto che è un filibustiere della Tortue.»

      «Io non voglio che muoia, Colima.»

      «Quale capriccio!…»

      «Yara così vuole.»

      «Pensate al padrone.»

      «Io non l’ho mai temuto. Obbedisci, Colima.»

      «Chi sono costoro?» si chiese il Corsaro che non aveva perduta una sillaba di quella conversazione. «Pare che vi sia qualcuno che s’interessa di me e…»

      Non proseguì. La molla esterna era scattata con un stridìo prolungato e la piastra metallica che corazzava il quadro era discesa, lasciando libero il passaggio.

      Il Corsaro si era spinto innanzi colla spada tesa, pronto a ferire, ma subito si trattenne facendo un gesto di stupore.

      Dinanzi a lui stava una bellissima fanciulla indiana, ed un giovane negro il quale reggeva un pesante candeliere d’argento.

      Quella giovanetta poteva avere sedici anni e come si disse era bellissima, quantunque la sua pelle avesse una tinta leggermente ramigna.

      La sua corporatura era elegantissima, con una vitina così stretta che due mani sarebbero bastate a stringerla. Aveva due occhi splendidi e neri come carbonchi, ombreggiati da due ciglia foltissime e lunghe; il nasino diritto, quasi greco, le labbra piccine, vermiglie, che mostravano dei denti più brillanti delle perle; dei capelli lunghissimi, neri come le ali dei corvi, gli scendevano, in pittoresco disordine, sulle spalle, formando come un mantello di velluto.

      Anche il costume che indossava era graziosissimo. La sua gonnellina di stoffa rossa era ricamata con pagliuzze d’argento e adorna di piccole perle; la sua camicia, assai attillata ed abbellita da pizzi, era pure cosparsa di pagliuzze d’oro e alla cintura aveva una grande sciarpa a smaglianti colori, terminante in una quantità di fiocchetti di seta. I suoi piedi, piccoli forse come quelli delle cinesi, sparivano entro delle graziose babbucce di pelle gialla pure ricamate in oro, e agli orecchi portava due grandi anelli di metallo ed al collo numerosi monili di grande valore.

      Il suo compagno invece, un negro di diciotto o vent’anni, aveva le labbra molto tumide, gli occhi grandissimi che parevano di porcellana e una capigliatura assai cresputa.

      Con una mano reggeva il candeliere, coll’altra invece impugnava una specie di coltellaccio ricurvo, arma usata dai piantatori.

      Vedendo il Corsaro in quell’attitudine minacciosa, la giovane indiana aveva fatto due passi indietro, mandando un grido di sorpresa ed insieme di gioia.

      «Il bel gentiluomo!» aveva esclamato.

      «Chi siete voi?» chiese il Corsaro balzando a terra.

      «Yara,» rispose la giovane indiana con un tono di voce argentino.

      «Non ne so più di prima; d’altronde non mi preme avere maggiori spiegazioni. Ditemi invece se la casa è assediata.»

      «Sì, signore.»

      «E don Pablo de Ribeira, dov’è?»

      «Non l’abbiamo più veduto.»

      Il Corsaro si volse verso i suoi uomini, dicendo:

      «Non abbiamo un istante da perdere. Forse siamo ancora in tempo.

      Senza nemmeno occuparsi del negro e dell’indiana aveva infilato il corridoio per giungere alla scala, quando si sentì prendere dolcemente per la falda dell’abito.

      Si volse e vide l’indiana. Il bel volto della giovane tradiva un’angoscia così profonda, che ne fu stupito.

      «Che cosa desideri?» le chiese.

      «Non