Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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poteva attirare l’attenzione degli uomini di guardia del piroscafo e sorridendo, anziché spaventarsi, ne fece osservazione a Sandokan.

      – Vedete voi la scia che diventa talvolta luminosa? – mormorò il Malese.

      – La vedo, Sabau – rispose Sandokan. – La fosforescenza fra poco crescerà.

      – Navigheremo come in un mare illuminato. La fortuna non è con noi, ma forse è un vantaggio.

      Sandokan sorrise e guardò a poppa. Attorno al timone parevano scaturire vivide scintille e la scia prima biancheggiante diventava raggiante come se una luna splendesse sotto i flutti d’inchiostro. A prua, l’acqua che spumeggiava prendeva la medesima tinta, visibile fra quella oscurità profonda a due o tre miglia distante. Fra i pirati distesi sul ponte si udì un lieve mormorio, qualche bestemmia, qualche sogghigno, e tutti gli occhi si volsero al legno da guerra sempre addormentato sulle sue âncore e lontano già quasi un miglio.

      – Dormono adunque? – mormorò Sandokan tormentando la ribolla del timone.

      Il prahos continuò a filare sotto il suo piccolo fiocco, smuovendo i flutti che si facevano ognor più fosforescenti sotto le migliaia e migliaia di uova di pesci. Aveva già percorso una quarantina di metri senza che alcun segnalasse quell’insolito chiarore, quando un grido formidabile, un richiamo risuonò dal mare. I pirati si levarono come un sol uomo colle armi in pugno.

      – All’armi! All’armi! – aveva gridato una voce che il vento aveva portato fino al prahos.

      – Sangue di Satana, siamo scoperti! – esclamò un pirata di colossale statura, i cui occhi brillavano come quelli di un gatto fra la profonda tenebrìa.

      – Tanto meglio! – esclamò Sabau, alzando la scimitarra.

      Il prahos si arrestò.

      I flutti appena appena agitati tornarono diventare oscuri e la scia scomparve.

      Il grido era partito dal legno da guerra, non vi era dubbio. Per quanto la smania di avventarsi sul nemico ardesse nel petto di Sandokan, egli cercò di rendere invisibile il suo legno troppo lontano dall’incrociatore per venire a un abbordaggio e troppo debole di artiglierie per ingaggiare un terribile duello.

      – Non movetevi! – comandò egli con quel tono di voce che non ammetteva replica.

      La medesima voce di prima, che il vento portava, si fece udire al largo:

      – All’armi! All’armi!…

      Tra il silenzio generale appena rotto dalle ondulazioni del prahos e dalla brezza che fischiava debolmente tra le manovre, si udì il rullo del tamburo risuonare sul legno nemico. Si batteva la carica.

      I pirati non si mossero, decisi, come erano sempre, a tutto, pronti a sfidare una nuova tempesta di ferro e ad arrampicarsi sui fianchi del legno nemico. Sandokan era con loro; bastava.

      Il tamburo continuava a rullare. Un istante dopo, malgrado la lontananza, s’udirono le catene che si torcevano nelle cubie e i colpi secchi dell’argano. Si salpavano le âncore, la battaglia era sicura.

      – Al tuo pezzo Sabau! – disse brevemente Sandokan. – Quattro uomini con lui!

      Si ubbidì sempre nel più profondo silenzio. Nel medesimo istante una fiamma lampeggiò sul ponte del piroscafo, seguita da una forte detonazione. L’acqua rimbalzò fino a poppa del prahos.

      – I proiettili piovono – mormorò Sandokan. – Bene, tanto peggio per lui!

      Un fumo rossastro sfuggiva a gran volute dalla ciminiera. Si udirono le ruote rimordere le acque spumeggianti, e si videro i fanali cangiar posizione.

      Il piroscafo fu visto avanzare a tutto vapore sul prahos che sempre immobile nelle acque fosforescenti, attendeva impassibile lo scontro.

      – Ai remi, voi! – comandò Sandokan nel momento che una seconda detonazione scoppiava al largo e che una nuova palla faceva saltar l’acqua a prua.

      Il prahos virò immediatamente di bordo, descrivendo un semi cerchio colla prua volta al vascello nemico, che correva alla carica, coll’evidente intenzione di colarlo a fondo. La fuga non poteva ormai più tentarsi con un sì rapido camminatore, la ritirata su Labuan nemmeno sotto il fuoco schiacciante di un nemico sì potente in fatto di artiglierie. Il meglio era di incontrarlo evitando un urto, abbordarlo a babordo o a tribordo secondo i casi, arrampicarsi sul ponte e intavolare una pugna disperata. Uno dei due dovea scomparire. Tanto meglio: vi sarebbe stato più sangue e più cadaveri!

      Entrambi si scorgevano: l’uno pei suoi fanali, l’altro per la scia fosforescente. Entrambi si udivano: l’uno per il sospirar della macchina ansante, l’altro pel battere dei remi. Il fuoco, palla e scaglia, s’incominciò con egual furia, per ischiacciarsi a vicenda prima dell’urto.

      – Orsù, Sabau, la partita non è eguale, ma siamo sempre noi i pirati di Mompracem. Fa adunque ruggire il tuo pezzo e frangimi una di quelle ruote che mordono le acque – comandò Sandokan.

      Il prahos volava ratto ratto, incontro al legno da guerra che arrivava a tutto vapore, mostrando la prua tagliata quasi ad angolo retto, come uno sperone affilato. Sabau cominciò col suo pezzo la musica infernale, protetto dietro la barricata mirando i fianchi del colossale nemico, che rispondeva a tratti, tempestando, ruggendo, infiammandosi, rompendo le tenebre e il silenzio per ogni dove.

      In meno di cinque minuti il disgraziato legno che aveva un bel da fare a rispondere, fu demattato sotto un fuoco di dieci o dodici bocche che scagliavano palle e mitraglia. Il ferro strideva sulle tavole del ponte, sui fianchi, sulla barricata e fra gli attrezzi frantumati. Ruggiva, saltava, lacerava, spezzava, turbinava; ai fori aggiungeva strappi, alle avarie aggiungeva avarie.

      Il cannone fu smontato, Sabau fulminato accanto al suo pezzo, la barricata sfondata, il timone infranto, e i remi furono schiantati assieme alle murate e ai banchi. L’acqua cominciò a penetrare nella stiva; i remiganti abbandonando i feriti bestemmianti e dibattentisi fra il liquido elemento che li affogava, salirono sul ponte cosparso di rottami disperdendosi dietro le barricate, cercando sostenersi con un inefficace fuoco di moschetteria. In meno di cinque minuti un terzo erano stati sventrati dall’uragano di ferro.

      Sandokan solo, cui pareva un genio infernale miracolosamente proteggesse, rimaneva impassibile fra quel turbinio di mitraglia che sdrusciva il legno affondante. In piedi a poppa, con un remo in mano e la scimitarra fra le labbra, gettava di quando in quando una specie di ruggito soffocato come la tigre della Malesia che si vede presa dai cacciatori.

      La partita era perduta; impossibile resistere a quel vulcano irrompente senza un pezzo d’artiglieria. Non restava che morire, ma morire onoratamente sul ponte del nemico dopo di aver venduta ben cara la vita. Dodici soli uomini ancor rimanevano sul ponte frantumato del prahos che coi fianchi aperti se ne andava a picco, ma dodici uomini assetati di sangue, guidati da un capo il cui valore era popolare in quei mari, e che valevano ancora i quaranta partiti da Mompracem.

      – A me, miei pirati! – esclamò Sandokan, fino allora rimasto muto.

      I dodici combattenti cogli occhi stravolti, i pugni chiusi come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni lo raggiunsero a poppa dove manovrava ancora al remo. Tre o quattro feriti che bestemmiavano sotto i rottami, vomitando torrenti di sangue a ogni scossa, si sforzarono di ubbidire ancora alla voce del capo; essi caddero ai piedi dei rimasti urlando come tigri.

      – All’abbordaggio! Vendetta! Vendetta!

      – Ah! cane di un nemico! – esclamò un Daiasso, mentre una palla gli troncava una mano.

      Il piroscafo avventando fiancate sopra fiancate sul prahos sdruscito che non avea più l’apparenza di un legno, era allora a soli venti metri da poppa e proseguiva la corsa per affondarlo col suo sperone. Sandokan si aggrappò al remo con ambe le mani.

      – Lancia un grappino! – esclamò egli virando di poppa per evitare l’urto. Il piroscafo era a pochi passi distanti e cercava alla sua volta di virare spazzando il mare a tribordo; le sue onde giungevano fino al prahos che rollava penosamente, e sul ponte del quale i pirati moschettavano i marinai delle artiglierie per nascondere l’audace manovra.

      Di