Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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spaventevole bestemmia echeggiò sotto le volte fronzute di grandi alberi facendo tacere le scimie verdi che dondolavano sulle cime dei più alti rami.

      Il pirata tornò a guardare il mare sempre tranquillo e la terra su cui riposava.

      – Che importa – continuò egli con maggior ira battendo coi pugni chiusi la terra, – che importa se oggi vinto e ferito mi trovo su questa odiata terra delle giacche rosse, quando domani questi luoghi che mi hanno visto approdare spossato e dissanguato non avranno più abitatore alcuno e non conserveranno più traccia di sé?…

      «Che importa se oggi il leone ha il ruggito più forte della Tigre malese, quando domani sarà lui che morderà la polvere e sopra di lui sibileranno mille lingue di fuoco che struggeranno i suoi discendenti? Non si conosce ancor bene la potenza del mio braccio, il mio nome, il mio odio tutto accumulato su questo palmo di terra che dovrebbe fremere al mio soffio! Bene, battuto oggi, vincitore senza pietà domani!

      Il pirata, così parlando, si animava come assaporasse di già la vendetta, agitava le braccia come brandisse una scimitarra di fuoco pronta a frantumare l’intera Labuan, fremeva e si dimenava bestemmiando.

      Il dolore della ferita lo ricondusse alla realtà; egli divenne cupo e si morse le dita.

      – Pazienza, Sandokan – continuò egli poi su altro tono, – la tigre della Malesia sa spiare la sua preda senza fretta e senza rumore, cerchiamo imitarla. Non sarei più il medesimo uomo se avessi a dimenticare l’onta di una sconfitta. Mompracem è laggiù al ponente, la vendetta mi darà la forza di raggiungerla, dovessi farmi schiavo di queste giacche rosse. Sono ancora il terribile Sandokan; malgrado la mia ferita, saprò trarmi d’impaccio anche sulla terra di loro… no, sulla terra del fuoco, sulla terra del Borneo!

      Stette un’ora nella medesima posizione, appoggiato al tronco d’arecche, coll’occhio scintillante, fisso sul mare le cui onde venivano a morire gorgogliando a pochi passi lontano, quasi volesse invocare da esse, che egli chiamava sorelle, un aiuto e porgendo orecchio al sibilo del sangue impoverito, al battito precipitoso del cuore e ai tremiti della febbre che lo divorava. Si sentiva stordito, spossato, ammalato; il sangue gli affluiva in testa e i denti battevano come galoppo formidabile; andò ancora a spegnere la sete al ruscello tuffandovi avidamente le labbra, le mani, la testa.

      I dolori ricominciarono accompagnati da una spossatezza indefinibile. La ferita gli strappava gemiti, le forze lo abbandonavano a onta di tutta la sua energia. Lottò ancora dieci volte trascinandosi alla riva del ruscello per tuffar la fronte ardente e spegnere la sete che lo divorava, confondendo Dio e gli uomini, invocando il Portoghese, i suoi pirati, la sua Mompracem, poi ricadde sfinito appié dell’arecche nel mentre che il sole dopo di aver compiuto il suo giro si tuffava nel mare dopo un breve quanto magnifico crepuscolo.

      – La notte! La notte! – esclamò il ferito sollevando la terra a lui d’intorno colle unghie. – Oh! io non voglio dormire, voglio esser forte, ancora forte. Il nemico è là mi potrebbe spiare… no, non voglio dormire io… non voglio!

      Si portò ambe le mani sulla ferita dolorosa e si rizzò in piedi. Girò lo sguardo verso la foresta che diventava rapidamente oscura e al mare che diventava color d’inchiostro, parve indeciso sulla via da prendere, poi si gettò sotto gli alberi, movendo diritto, senza saper il dove, né il perché. Camminava per non dormire, per non essere sorpreso dal nemico che forse vegliava; camminava per non cadere nelle sue mani.

      Nel suo delirio credeva che gli Inglesi fossero là ad aspettarlo, pronti a precipitarsi su di lui appena addormentato. Credeva sempre di udire le grida degli inseguitori, i loro colpi di fucile, l’abbaiar dei loro feroci cani e fuggiva, ad onta della ferita, cadendo, rialzandosi, lasciando lembi del suo vestito ridotto a brani fra i cespugli, incespicando nelle radici, scalando alberi atterrati, precipitandosi nei ruscelli, bestemmiava, malediceva, ruggiva come la tigre agitando il suo kriss la cui impugnatura tempestata di diamanti scintillava come una face quando un raggio di luna vi batteva sopra.

      Continuò la forsennata corsa per dieci minuti, internandosi sempre più nelle foreste, destando tutta la selvaggina dei dintorni, poi si arrestò anelante, smarrito. Alzò le braccia come un pazzo invocando la vendetta celeste su quella terra, che pareva ardesse sotto i suoi piedi, lasciò sfuggire un urlo da disperato e battendo l’aria colle mani, ruinò al suolo come un albero schiantato dal vento.

      Allora alla febbre si aggiunse il delirio. La testa pareva fosse lì per iscoppiargli, pareva che dieci uomini la martellassero simultaneamente facendogli saltare il cervello. La ferita malgrado le filacce incominciò a sanguinare, ma pareva fuoco che uscisse dal petto e che ardesse le carni, la terra, le foreste e l’isola intera. Le forze lo abbandonarono ancora nel momento che tentava riprendere la sfrenata corsa e ricadde sui cespugli.

      – Via di qua… via di qua! – urlava egli in preda al delirio e alla febbre. – Che volete voi, giacche rosse… su questa terra?… Via da questi mari… sono miei! Largo alla Tigre… largo ai pirati di Mompracem… largo ai padroni di questo mare… essi berranno il vostro sangue… essi succieranno le midolle delle vostre ossa… berranno nei vostri teschi… arderanno le vostre navi… le terre, le città, i villaggi! Che volete voi? Non avete terre in vostra patria?… ladri, avvelenatori di popoli… via di qua! via di qua!

      Così parlando, il pirata si rotolava fra i cespugli mordendo la terra, strappando le radici colle unghie e coi denti. Urlava come una belva feroce, si rizzava sulle ginocchia, si batteva il capo, si torceva le braccia, stritolava i cespugli in una potente stretta. Egli credeva di aver dinanzi a sé degli Inglesi, e mordeva credendo mordere i loro crani.

      – Io battuto?… La Tigre risorgerà!… vi abbrucerà col solo ruggito… vi disperderà, fossero pur cento leoni contro essa!… sangue di Maometto; io soffro per loro… sulla terra di loro… ma la pagheranno… aspettate, aspettate… vedrò i vostri volti al balenar dei cannoni! Del sangue, del sangue io ho sete… datemi del sangue di loro… traetelo dalle loro vene… datemi delle carni… carni di loro… che palpitino sotto le mie dita… datemele, io le divorerò!… Sono ferito… la palla avvelenata di loro suscita un vulcano nel mio petto… la sento ardere… ma guarirò, voglio vivere…, capisci leone d’Inghilterra… voglio vivere! voglio vedere la Perla di Labuan! Ah! maledetta Perla, fosti la mia ruina!

      Uno scroscio di risa diaboliche irruppe dalle sue labbra perdendosi nel fondo delle foreste. Si arrestò colle mani contratte fra i capelli, fremente per la febbre, divorato dalla sete. Pareva che un fuoco immane gli ardesse nel petto, che la terra su cui posava fosse il fondo di una caldaia in ebollizione. Stette alcuni minuti in silenzio, poi ripigliò i suoi pazzi discorsi, destando gli echi delle foreste, agitando le mani come per allontanare delle ombre invisibili, degli scheletri, dei fiumi di sangue.

      – Via di qua, via!… Che volete, orribili ombre?… Via quei fantasmi, volgete altrove quegli occhi di fuoco… Essi mi divorano! Che volete voi, nudi scheletri dalle bianche ossa e dalle vuote occhiaie?… Che avete da gemere… che avete da fare crocchiar quelle dita e quei piedi?… Perché quelle costole spezzate, quelle ossa frantumate… quei teschi aperti… via, via! Non sono Sandokan io forse? Sangue… fiumi di sangue e monti di cadaveri… sempre sangue e fantasmi. Ah! Sei tu Patau… la palla di cannone ti ha infranto il petto… Ah! siete voi… tutti voi che ho ammazzato… andate, andate laggiù nella fossa… nella gran fossa delle giacche rosse. Non verrò! non verrò!

      La notte fu orribile. Il pirata in preda alla febbre e al delirio, non sognò che fiumi di sangue dove cercava invano di spegnere la sete, schiere di fantasmi avvolti nei loro sudari bianchi, e i cui occhi si fissavano nei suoi, scheletri che danzavano attorno a lui facendo crocchiar le ossa e facendo udir diabolici scoppi di risa, e una processione di uomini di tutte le razze, gementi, urlanti, coi fianchi aperti, colle teste spezzate a gran colpi di scimitarra o di scure, colle membra troncate donde uscivano fiotti di sangue e coi corpi traforati, scarnati in mille guise da palle di cannone e da mitraglia.

      Ma a poco a poco tutte quelle visioni, le une più spaventevoli delle altre, rappresentanti le vittime di lui, disparvero ed egli cadde in un profondo torpore, in una specie di sonno di cui ne avea tanto bisogno, ma che durò qualche ora. Quando si svegliò era ancora notte, ma era più calmo.

      – Credeva