Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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Sandokan con voce sorda.

      A un cenno dell’Inglese, i cinque indigeni lo sollevarono con tutte le possibili precauzioni, e malgrado egli ruggisse in cuor suo, si lasciò trasportare a forza di braccia all’abitazione.

      Era dessa senza dubbio la miglior casa che sorgesse in Labuan dopo quella del governatore. Un vero palazzo di legno col tetto di zinco, dove le fenestre numerose, ma ben disposte avevano un po’ di architettura gotica, e dove i fregi non mancavano. Una veranda indiana girava attorno, rinchiusa da persiane dipinte a vivaci colori, e dove le piante arrampicanti, dividendosi in mille rameggi gli uni più bizzarri degli altri, avevano preso sede, avanzandosi ancora più sopra fino alle fenestre e ancora più in alto fino ai camini del tetto.

      Si elevava sulle rive dello stagno sopra il quale si passava con un ponte levatoio, e ai cui fianchi staccava sì solide stecconate, alte tre o quattro metri, indispensabili per quei luoghi frequentemente visitati dai pirati di Mompracem e delle Romades. Un gran giardino riboccante dei più bei e più preziosi alberi e dei più rari fiori stendevasi a perdita d’occhio al di là delle palizzate cosparso di piccoli chioschi chinesi, di gran graticci di filo di ferro entro ai quali garrivano i più graziosi uccelli della Malesia e munito del relativo padiglione dalle pareti verdeggianti ombreggiato da un colossale albero della canfora il cui tronco non sarebbe stato abbracciato da dieci uomini.

      Gli indigeni portando Sandokan che concentrato tutto nella sua ira nulla vedeva e nulla udiva, traversarono il ponte levatoio preceduti dall’Inglese e dopo esser passati per una fila di stanze arredate con eleganza, lo deposero in una di esse, ampia quanto mai, tappezzata in rosso, le cui grandi fenestre gotiche davano sul giardino.

      Il ferito fu disteso su di un letto e messa a nudo la ferita; l’Inglese la esaminò attentamente come un uomo che se ne intende. Vi fece passare sopra leggermente una spugna bagnata di acqua fresca, alleviando l’atroce dolore che pativa il pirata, vi applicò un cataplasma d’esca e un miscuglio di sostanze vegetali di cui il ferito stesso ignorava l’effetto e la provenienza, vi sovrappose delle filacce e fasciò il tutto con abile mano.

      – Non movetevi se lo potete, solo coricatevi sul fianco corrispondente al cataplasma e il capo alquanto rialzato – disse l’Inglese. – Non dite parole che potrebbero causarvi una debolezza estrema, dormite e non pensate che a guarire. D’altronde non avrete ad annoiarvi; vi presenterò io una graziosa infermiera che saprà rallegrarvi nei momenti di malinconia.

      Il ferito, facendo uno sforzo su sé stesso sorrise. Allungò la mano, poi ritirandola:

      – A chi dovrò dimostrare la mia gratitudine… per le cure avute?

      – A James Guillonk, capitano di vascello di S. M. Britannica, la regina Vittoria.

      Il ferito fece un balzo sul letto mentre le mani si raggrinzavano sulle coperte.

      – Capitano di vascello! Capitano di vascello avete detto? – esclamò egli con truce accento.

      – Che diavolo vi trovate di strano? – chiese flemmaticamente l’Inglese che non capiva.

      – Ascoltate, James Guillonk. Io era ferito, laggiù sotto le foreste che mordeva la polvere sotto il piombo di un pirata, quando vidi una nave… sì una nave che fumava. Ho veduto una lotta mostruosa fra la nave e dei prahos… una carneficina… oh sì, terribile carneficina dove i pirati pugnavano come tanti eroi… Eravate voi che guidavate quella… quella nave?

      – Non ero io, tacete, non una parola di più – disse l’Inglese accostando un dito alle labbra. – Ve lo proibisco severamente; ecco, guardate che la febbre vi assale, poi verrà il delirio.

      – Il delirio! – esclamò Sandokan senza comprendere. – Non ho paura io del delirio né di loro!

      Egli soffocò a metà la parola lì lì per uscirgli e ricadde spossato fra le coperte. L’Inglese accostò ancora un dito sulle labbra raccomandandogli silenzio e si ritirò sulle punte dei piedi seguito da quattro indigeni. Il quinto restò a guardia del ferito piantandosi dinanzi ai vetri.

      Sandokan ad onta delle raccomandazioni alzò il capo e guardò intorno. La stanza era vasta e riccamente arredata, tappezzata in rosso, il color favorito del pirata che gli rammentava i suoi fiumi di sangue e era illuminata da due grandi fenestre gotiche attraverso i vetri delle quali si scorgeva un lembo del padiglione col suo colossale albero della canfora e coi suoi artocarpi dalle grosse frutta e i filari di cedri di un gran viale che attraversava il giardino.

      Il pirata vide in un canto della stanza un pianoforte sul quale erano sparpagliati in un grazioso disordine libri di musica, ninnoli chinesi leggiadramente lavorati, una tavolozza, delle tele dipinte e dei pennelli. Nel mezzo della stanza un tavolo riccamente intarsiato con una scacchiera d’ebano e d’avorio, in cui gli scacchi, alcuni rovesciati ed altri in piedi, parevano indicare che la partita era terminata poco tempo prima, forse la sera precedente. Addossato a una parete vide un canapé, sul quale eravi ancora un lavoro di donna non ancor finito e presso il suo letto un ricco sgabello con un libro semi-aperto con un fiore appassito e schiacciato fra le pagine che esalava ancora un soave profumo.

      Tese una mano verso quel libro, lo chiuse e guardò la legatura, in mezzo alla quale campeggiava un nome impresso a lettere dorate.

      – Marianna! – lesse egli. – Chi può essere mai questa donna?

      Il pirata senza potersene render conto nel leggere quel nome che non aveva e non poteva aver nulla di strano, si sentì agitato da una bizzarra sensazione. Qualche cosa di dolce colpì il cuore di lui, quel cuore d’acciaio che aveva la ferocia della tigre, e sussultò.

      – Marianna! – ripeté egli con strana intonazione. – Qual nome!… L’aprì senza far rumore, gettando uno sguardo sull’indigeno sempre immobile dinanzi ai vetri. Non conteneva che delle annotazioni in una lingua che non poté comprendere, benché qualche parola avesse molta somiglianza colla lingua di Yanez. Andò senza volerlo a cercar quel fiore, un gelsomino, lo prese delicatamente con quelle dita che non conoscevano che l’impugnatura delle armi, l’alzò fino agli occhi e lo mirò a lungo. Lo fiutò più volte con ardente alito, lo fissò quasi volesse indovinare qual mano l’aveva racchiuso in quel libro, provando un non so che nel cuore, un tremito, una sensazione vaga, ignota, voluttuosa, e lui, il sanguinario, l’uomo di guerra, si sentì stranamente spinto a portare quel fiore alle labbra!…

      Ripose quasi con dispiacere quel fiore fra le pagine, collocò il libro sullo sgabello e tornò a coricarsi dimenticando il luogo dove si trovava, la ferita, la febbre.

      – Marianna! – ripeté per la terza volta e socchiuse gli occhi fantasticando su quel nome.

      Si addormentò tranquillamente ad onta della febbre che lo divorava, sognando non già fiumi di sangue, fantasmi dagli occhi di fuoco, scheletri dalle ossa crocchianti e vuote occhiaie, ma foreste immense di una bellezza incomparabile, fiumi tranquilli mormoranti fra le praterie, montagne vaghe e in mezzo a tutto ciò un nome gigantesco, immane, tracciato a grandi lettere d’oro che lo abbagliavano, dapprima confuso, poi più chiaro e infine leggibile. Era ancora il nome di Marianna!

      Ma il sonno e il sogno non durarono molto. La febbre si sviluppò terribilmente e pericolosamente accompagnata dal delirio. Si svegliò che il sole calava al ponente ed ebbe paura come le notti precedenti, malgrado che la situazione fosse cangiata. Egli si mise ad agitarsi urlando come un insensato.

      – Via queste tenebre… via questi fantasmi che aspettano il calar del sole! Via, non vedete che mi guardano ancora, che mi abbruciano coi loro sguardi di fuoco?… Ah! ecco gli scheletri… danzate, danzate figli delle giacche rosse… ecco del sangue, dei teschi riboccanti di vino, delle membra lacerate… ovunque sangue, armi, armati, morti, moribondi!… Annegatemi tutti questi mostri dalle gole spalancate… dite loro che non ho paura… sono la Tigre, capite, la Tigre!…

      Egli si arrestò non udendo più la voce di James Guillonk che cercava calmarlo, e che passava da uno stupore all’altro nell’udire questi strani discorsi. Poi ripigliò l’insensato quanto pericoloso vociare, che poteva tradirlo precipitandolo fra le braccia dei Britanni assetati del suo sangue.

      – Oh! non ho paura io… tutte le giacche rosse non mi fanno tremare…