Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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Là, là, Mompracem, non tremare… la Tigre è là sul mare, spiando sempre. Ferro e fuoco!…

      Poi la visione parve cangiare improvvisamente. Si levò a metà, cogli occhi stranamente fissi sul tavolo della stanza, e stese le mani nervosamente raggrinzate verso di esso.

      – Di chi è quel nome… di chi è quel nome che risuona qua entro… nel cuore della Tigre?… che mi fa fremere? Chi giuocò là su quella scacchiera?… Vedo una mano, fina… vedo una fanciulla che mi sorride… mi tende le braccia… è bionda perché è razza delle giacche rosse! Mi sorride… il mio cuor freme… sanguina… Il suo nome, il suo nome… io lo sapeva! Ah! non mi rammento più!

      Il pirata cadde spossato sul letto gettando un gemito; si agitò ancora come cercasse abbracciare qualche cosa che pareva sfuggirgli, poi cadde in un profondo torpore che somigliava al sonno.

      Lord James lo contemplò colle braccia incrociate e la fronte leggermente corrugata. Aveva udito i bizzarri discorsi usciti dalle labbra del ferito, dei discorsi che potevano gettarlo su di una traccia e pensava. Come potevano mai entrarci le giacche rosse? Non poteva aver compreso il vero significato della parola, ma sospettava che ciò riguardasse quelli della sua razza. E poi, quei cadaveri, quel sangue, quel nome di Tigre che si dava, quelle stragi, e di più quella Mompracem, il fantasma di Labuan, il formidabile nido di pirati, aveva tutto ciò qualche cosa di sì strano, che preoccupava vivamente l’Inglese.

      – Se fosse un pirata! – esclamò egli e si arrestò a contemplare quel fiero tipo che allora dormiva.

      Uscì senza far rumore, riservandosi di chiedere una spiegazione all’indomani, dopo di averlo raccomandato a due indigeni e di avergli fatto preparare un calmante.

      Quando Sandokan si svegliò era tardi. Non si rammentava quasi nulla di ciò che aveva detto durante la notte, solo degli scheletri che parevano aver danzato intorno a lui e dei fiumi di sangue.

      – Bevete questa tazza – disse uno degli indigeni presentandogliela colma di vino.

      Sandokan la vuotò senza dir verbo, ma provando un vero sollievo. Egli girò lo sguardo attorno come cercasse qualche cosa e lo fermò ancora sul libro del fiore leggendo il singolar nome, provando la medesima emozione del giorno precedente. Allungò la mano come per prenderlo, ma vedendo i due indigeni che lo guardavano con curiosità, si trattenne.

      – Avete passato una cattiva notte – disse uno degli indigeni.

      – Ah! – fe’ Sandokan alquanto contrariato di vederseli vicini.

      – Avete parlato sempre, gridando come un insensato – continuò l’indigeno.

      Il pirata sussultò e si fece più attento. Non si rammentava di ciò che avea detto, forse poteva essersi tradito senza saperlo. Colse l’occasione a volo.

      – Voi mi dite che io ho parlato? – domandò egli colla massima calma guardando il negro.

      – Sì, avete parlato di sangue, di navi, di scheletri, di giacche rosse e di mille altre stranezze.

      – E di Mompracem? E di… – il nome che stava per uscirgli incautamente gli si arrestò fra le labbra.

      – Sì, di Mompracem – disse ingenuamente l’indigeno. – Quel nome meravigliò il padrone.

      Sandokan, malgrado fosse coraggioso si sentì invadere da un vago timore.

      – Mi sono tradito! – mormorò egli gettando uno sguardo all’intorno come cercasse un’arma.

      Ebbe per un istante l’idea di scagliarsi sui due indigeni e di darsi alla fuga dopo averli strozzati, ma si frenò. Poteva essersi ingannato; risolse aspettar gli eventi, deciso però a non lasciarsi prendere vivo. Avrebbe ben saputo lui prendere il largo a momento opportuno.

      Egli stava per intavolar il discorso su più vasta scala, quando lord James entrò.

      – Come state, giovanotto mio? – domandò egli movendo verso il letto. – I corpi d’acciaio sono sempre d’acciaio; guariscono a dispetto di tutte le ferite del mondo.

      Sandokan sorrise, ma scrutando gli occhi dell’Inglese come per leggervi il pensiero che gli attraversava la mente. Intravvide una ruga più profonda del giorno innanzi sulla sua fronte, ma non si smarrì.

      – Mi sento più forte che mai – rispose egli. – I miei ringraziamenti, milord, per le vostre cure.

      – Non parliamone più, sarò abbastanza ricompensato nel vedervi guarito. Sapete che questa notte eravate in preda al delirio. Non vi nasconderò che dalle vostre labbra sono usciti strani discorsi.

      – Ah! – esclamò Sandokan sorridendo. – Ho adunque parlato? Non mi ricordo più.

      – Vi dirò poi cosa diceste. Ma una domanda prima di tutto; quantunque conosca in voi un personaggio d’alto grado, non so ancora chi siate. Vorreste dirmi qual vento vi spinse su queste coste?

      – Ascoltatemi, milord – disse Sandokan. – Il mio nome forse non vi riescirà nuovo, godendo una certa fama sulle coste della Malesia e specialmente a Schaja dove mio fratello è ragià. Mi chiamo Whu-Pulau e fui mandato in questi mari da mio fratello con un prahos carico di belzoino pel sultano di Varauni. Ho avuto la sfortuna d’incontrare dei prahos pirateschi coi quali venni a combattimento. Fui vinto, il mio equipaggio scannato e io ferito potei scampare miracolosamente al loro furore.

      L’Inglese stese la mano che Sandokan strinse non senza ribrezzo.

      – Bene, mio degno amico, una spiegazione ora – disse il lord. – Avete parlato questa notte di Tigre, di cui vantaste le sanguinose gesta. Siete voi che portate un tal nome?

      – Sì – rispose Sandokan che involontariamente trasalì. – I miei guerrieri mi diedero questo nome pel mio valore. Sono il terrore dei miei nemici e segnatamente dei pirati.

      – Non è tutto – continuò flemmaticamente il lord. – Avete parlato di giacche rosse e di un’isola temuta: Mompracem. È un punto oscurissimo per me.

      – Ah! – fe’ Sandokan fremendo. – Con queste giacche rosse, noi Malesi vogliamo significare i pirati, credendo che le loro stoffe siano sempre arrossate di sangue. In quanto a Mompracem è l’isola dalla quale i pirati sbucano, un gran nido, milord, che bisognerebbe distruggere dopo aver raccozzato forze considerevoli. Vi ha un formidabile uomo colà.

      – Lo so, si chiama Sandokan, che porta un nomignolo poco differente dal vostro. Si chiama la Tigre della Malesia, un uomo di prodigioso coraggio, che getta il guanto di sfida in faccia all’Inghilterra ma che cadrà. Questi mari che chiama suoi, diverranno nostri.

      – Sarebbe tempo – aggiunse Sandokan con sorda voce, mentre un lampo scattava dai suoi occhi.

      L’Inglese esaminò ancora la ferita applicandovi nuove compresse. Il pirata lo lasciò fare, ma un tremito convulso lo agitava tutto e le carni si raggrinzavano sotto lo sforzo potente che faceva per frenare lo scoppio di rabbia. Vi fu un momento che egli alzò il capo digrignando i denti, e che si sentì preso da una pazza voglia di afferrare pel collo l’infermiere e di strangolarlo.

      – Ruggi, ruggi contro la Tigre della Malesia, figlio di una razza maledetta – mormorò egli quando si trovò solo. – Quando mi vedrai illuminato dal balenar dei cannoni, a bordo dei miei prahos movendo su questa isola che chiami tua, saprai chi io mi sia. Il pirata diverrà allora un eroe leggendario della storia Malese, e il mio nome ancora di qua a cent’anni spargerà il terrore su queste coste come oggi. Dovunque il mio sguardo si fisserà non lascierà che tracce di ferro e di fuoco!

      Il formidabile uomo tese il pugno come se giurasse odio eterno alla schiatta dei Britanni, poi i suoi occhi caddero involontariamente sul libro posato sullo sgabello. La sua ira svanì tutta. Era solo. Afferrò macchinalmente il libro e lo guardò a lungo quasi con tenerezza, leggendo per la ventesima volta quel nome di donna. Poi le avide dita cercarono il gelsomino abbandonato e appassito fra quei fogli, lo prese ancora delicatamente e lo fiutò. Le sue labbra ardenti per la febbre, che non avevano sorriso che coll’espressione della tigre, sorrisero dolcemente, in un senso che egli stesso non giunse a comprendere, e quelle labbra