Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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più di duecento uomini, duecento tigrotti raccozzati in tutte le terre della Malesia, senza scrupoli e senza religione, ciechi istrumenti della terribile Tigre della Malesia, cui una parola sola bastava per magnetizzarli, e una sola minaccia per farli tremare, mentre che dinanzi alla mitraglia e ai moschetti non avevano mai tremato!

      Sandokan gettò uno sguardo di compiacenza sui suoi tigrotti, come amava chiamarli.

      – Ehi! Patau, salta innanzi – diss’egli.

      Un uomo di bassa statura, ma dalle forme di una robustezza eccezionale, un Malese che fino dai primi anni aveva fiutato la polvere di cannone sui prahos pirateschi, si staccò dalla banda e si fece innanzi con un dondolamento di lupo di mare.

      – Sei tu, se non m’inganno, che vorresti vedere la Perla di Labuan? – chiese la Tigre.

      – Sì, capitano – rispose il Malese.

      – Sei tu, che ti lagni sempre di aver sete di sangue?

      – Sì, Tigre della Malesia. Il tuo tigrotto ha sempre sete.

      – Sta bene. Armerai due dei più rapidi prahos. Ti voglio accontentare.

      Il Malese non aveva ancora ascoltato l’ultima parola che già volava, tirandosi dietro con un fischio mezza banda. In meno che non si dica i due più rapidi legni si trovavano pronti a sciogliere le vele.

      – Bene – disse la Tigre, che non faceva a meno d’ammirare con legittimo orgoglio i suoi uomini. – Tutti sono smaniosi di andare a Labuan a vedere questa Perla; per Allah! danzeranno tutti al tuonar dei cannoni! Vieni, Yanez.

      Nel momento che i due capi stavano per dirigersi alle imbarcazioni amarrate sulle sabbie, un indigeno dalla tinta nera come l’inchiostro, dalle labbra grosse come quelle degli africani, il naso stiacciato, gli occhi torvi e brillanti come quelli di una civetta, sbucando dalle foreste circostanti, avvicinossi a loro.

      – Oh! l’orribile mostro! – esclamò Yanez segnalandolo al suo compagno.

      – Ah! sei tu, Nini Balu? – disse Sandokan arrestandosi. – Mi hai l’aria, di portarci qualche novità. Su, cattiva creatura, sciogli la tua lingua da vipera.

      – Un sospiratore affannato fuma in vista dell’isola – rispose il selvaggio.

      Sandokan aggrottò la fronte, e portò involontariamente una mano sull’impugnatura del kriss.

      – Tu vuoi dirmi che un incrociatore bordeggia al largo?

      Il selvaggio fece un cenno affermativo col capo.

      – Che fa questo vascello? – chiese la Tigre con voce rauca.

      – Ci spia. Non fidarti, Tigre, di quella bestia nera. Ha un malefizio nel ventre.

      Sandokan non rispose. Egli mirò distrattamente e per alcuni istanti l’onda che veniva a morire quasi ai suoi piedi, poi volgendosi bruscamente verso Yanez:

      – Hai udito, fratello? – domandò egli.

      – A meno di non essere sordo, sicuramente – rispose il Portoghese.

      – Yanez – disse gravemente il pirata, – quel fumante incrociatore non mi dà a pensare, finché io batto il mare. Ma tu sai quanto il mare sia ampio, e quanto sia facile perdere di vista il nemico; finché io lo cerco, potrebbe piombare sull’isola e dar fuoco al nostro covo. Ora occorre un uomo di ferro per impedire che si bombardi il villaggio. Tu rimarrai.

      – E tu? – domandò il Portoghese.

      – In quanto a me proseguo la via che mi son fissato di tenere. Andrò, se mi si offre il destro dopo la presa dei legni, non solo a veder la Perla, ma a bombardare Vittoria, la città di Labuan.

      – Ti occorrono venti prahos per lo meno, Sandokan.

      – Alla Tigre della Malesia basta il suo ruggito per ispaventare il leone – disse Sandokan fieramente.

      Poi si volse e fece un gesto a Patau, che avvicinossi come un lampo.

      – Quaranta tigrotti a bordo dei prahos – disse. – Bada che sieno tutti assetati.

      – Attaccheremo l’incrociatore? – chiese imprudentemente il Malese.

      – Ciò non ti riguarda, rettile. Spicciati, per Cristo!

      Il Malese si allontanò senza fiatare. Scelse quaranta dei più coraggiosi uomini, la maggior parte Daiassi, Malesi e Battiassi e li fece imbarcare a bordo dei due legni assieme a due cannoni di rinforzo.

      Sandokan tornò a volgersi verso il Portoghese, che sembrava pensieroso e di cattivo umore.

      – Suvvia! A che tenermi il broncio? – gli disse. – Avrai la tua parte di bottino lo stesso, lo sai bene. Vorrai dei prigionieri? Te li porterò. Vorrai sangue da bere? Te ne porterò una nave carica. Che vuoi di più?

      – Ah! Sandokan! Ho il presentimento che questa spedizione ti sia fatale.

      – Lascia i presentimenti alle femmine, Yanez. Orsù, i prahos mercantili non mi aspettano, lo sai. Addio, fratello.

      – Addio, Sandokan. Che la buona stella ti guidi.

      I due pirati si abbracciarono, come solevano far sempre quando intraprendevano una spedizione, dove non erano sicuri di tornar sempre. Poi la Tigre, colla testa alta, la carabina in mano, l’occhio acceso e le labbra contratte a un feroce sorriso, s’allontanò. Salì in una ricca imbarcazione, e in pochi colpi di remo raggiunse il suo prahos.

      Le âncore, in meno che nol si dica, furono strappate dal fondo e le grandi vele furono sciolte al vento da una squadra di diavoli color verde-oliva o nero fuliggine, che parevano dotati della potente agilità delle scimie.

      – Rotta per le Romades! – si accontentò di dire Sandokan, poi andò sedersi a prua sulla culatta del suo cannone favorito, con lo sguardo acuto, che avrebbe sfidato quello d’un’aquila, rivolto al sud.

      I due legni, coi quali la Tigre stava con la sua solita intrepidezza per intraprendere la caccia dei mercantili e di poi la spedizione sulle pericolose coste di Labuan, appartenevano a quella specie conosciuta nella Malesia sotto il nome di prahos o di pralì.

      Erano due legni bassi di scafo, di forma allungata e snella, più alti a poppa che a prua, e provvisti sottovento di bilanciere per impedire che una raffica improvvisa li rovesciasse e sopravento di un largo sostegno di bambù per la zavorra.

      Portavano vele della lunghezza di quaranta e più metri di forme allungate, composte di striscie di grossa tela di cotone dipinta, con pennoni tesi obliquamente, fatti di bambù strettamente legati con fibre di rotang, e alberi triangolari, grossi, un lato dei quali veniva formato dalla coperta del prahos. Avevano doppi timoni per meglio dirigerli, un casotto sul ponte chiamato attap, l’attrezzatura tutta di bambù, di rotang e di fibre di gamuti, e grossi cannoni a prua e spingarde dal lungo tiro, per poter gareggiare colle navi meglio armate.

      Al comando di Sandokan, i due legni pirateschi si affrettarono a prendere il largo descrivendo curve con matematica precisione per evitare le scogliere che fanno pericolosa corona all’isola, e bruschi angoli per non urtare contro le secche e i banchi madreporici.

      Una volta usciti da quel laberinto, quantunque il vento fosse un po’ debole, misero la prua al sud, guizzando e rimbalzando come palle elastiche sulle onde, filando senza darlo a vedere tre e quattro nodi all’ora, rapidità sufficiente per poter raggiungere i legni mercantili, che dovevano camminar assai meno.

      Tutti i pirati, benché la distanza fosse ancora ragguardevole dalle Romades, e nessuna vela apparisse all’orizzonte, si misero in osservazione, i più agili a cavalcioni dei pennoni per abbracciare maggior spazio e gli altri in piedi sulle murate, aggrappati alle sartie e alle griselle.

      Quaranta cannocchiali viventi, in pochi minuti, scrutavano i trentadue punti della bussola, spiando la preda non solo, ma anche il fumante incrociatore, verso il quale avevano qualche apprensione.

      Non era nemmeno da supporsi che avessero paura di esso o che temessero un incontro, malgrado la sproporzione delle forze. Avrebbe bastato che si fosse fatto vedere e che la Tigre ordinasse l’abbordaggio per