Emilio Salgari

La tigre della Malesia


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all’incrociatore, ma non si preoccupava tanto.

      Pure, volendo assicurarsi di ciò che pensavano i suoi uomini sulla probabile presenza di quel legno, chiamò Patau. Il Malese fu lesto ad accorrere.

      – Credi tu – chiese la Tigre, – che quel maledetto negro non ci abbia ingannati?

      – E perché avrebbe voluto ingannarci? – disse il Malese. – Nini Balu è una creatura, che non sarebbe capace di trattare colle giacche rosse(). Sono sicuro, per mio conto, che il sospiratore affannato spii l’isola colla speranza di ornare le sue antenne di impiccati.

      Le labbra della Tigre si piegarono a una smorfia, che voleva essere un sorriso.

      – Credi tu che i nostri uomini si preoccupino della presenza di questo legno?

      – Oibò – esclamò Patau con un’alzata di spalle. – Per preoccupare i tigrotti di Mompracem, guidati dalla Tigre della Malesia, occorrerebbero cento navi, e ancor queste sarebbero poche.

      – Vedete, capitano. Alla sola idea che quel sospiratore affannato ci spia, tutto il mio sangue bolle e quello dei miei compagni fuma. Quando l’incontreremo, il sangue diverrà fuoco, e voi sapete ciò che vuol dire. Succederà un massacro e nella macchina getteremo a bruciare cadaveri anziché carbone.

      – Lo so, Patau, che un dì o l’altro, ne ho la certezza, ci capiterà alle spalle. Ci spia, ma freme al mio nome, e trema dinanzi alla mia potenza. Guarda: forse ha gettato dei liquori fra gli indigeni di Mompracem, forse sa che io ho abbandonato il mio covo, e forse non ignora su quale terra io muova, ma non ardisce inseguirmi. Quaranta uomini, quaranta tigrotti gli fan paura e si tace!

      – È roba vecchia, capitano. Quelle giacche rosse non sono forti che coi deboli. Non avete udito dire come siano sbarcati a Labuan? Tiravano cannonate per misurarsi con quei miserabili selvaggi, che non avevano mai fiutato polvere di cannone.

      – Lo so – disse la Tigre sordamente. – Ma vorrei essere stato io laggiù coi miei prahos. L’Iris non sarebbe più tornato su queste coste, e il suo comandante Rodney Mundy sarebbe andato a trovare le madrepore appeso al suo ponte di comando.

      – Ah! – esclamò il Malese con tono di rimpianto. – Bisognerebbe andare un dì o l’altro a Labuan. Sarebbe il mio sogno.

      – E chi dice, Patau, che io non vi andrò? Uno strano capriccio mi ha preso, Malese mio: voglio andar a vedere la Perla.

      Il Malese fece un salto indietro.

      – Per Allah! – esclamò egli sorpreso. – Vi avrebbe toccato il cuore questa Perla?

      Una nube oscurò la fronte della Tigre della Malesia.

      – Ah! – ghignò Sandokan. – Credi tu che il mio cuore, inaccessibile a ogni passione, abbia perduto la sua invulnerabilità?

      – No, capitano. Ma dicesi che questa Perla sia così bella!…

      – Le mie bellezze, Patau, se tu nol sai, non sono che le pugne, i fiumi di sangue, e i monti di cadaveri. La Tigre della Malesia non conosce altre bellezze.

      La fronte di Sandokan s’aggrottò e la sua faccia prese una truce espressione. Volse bruscamente le spalle al Malese, e si mise a guardare attentamente il mare, senza aggiungere altra parola.

      I prahos continuarono la loro caccia, veleggiando sempre verso le Romades, accelerando la corsa pel vento che andava prendendo forza, guizzando come pesci, tagliando nettamente a prua le spumeggianti onde, che spruzzavano fino alla Tigre.

      Man mano che la distanza scemava, tutti gli occhi dei marinai prendevano maggior potenza visiva. Le pupille si allargavano scrutando il meridionale orizzonte, e le mani si avvicinavano insensibilmente alle carabine, alle scuri e alle sciabole d’arrembaggio, quasi indovinassero prossima la presenza dei legni mercantili, mentre quelle fiere figure d’uomini parevano acquistare novella forza, novella ferocia, cento volte raddoppiata dal magnetico sguardo della Tigre.

      E infatti i prahos mercantili, segnalati il giorno precedente, non dovevano essere gran fatto lontani. Se si erano arrestati alle Romades, il che poteva essere facile, dovevano apparire fra breve tempo, calcolando la loro destinazione per Labuan o Varauni.

      A ogni modo, sia in pieno mare o sotto costa, fossero pure sotto quella di Borneo, non potevano sfuggire. Avrebbe bastato una parola di Sandokan per decidere i pirati ad assalirli anche in mezzo a un porto, sotto i cannoni dei forti.

      – Guarda sottovento! – gridò d’un tratto un Dayasso che erasi arrampicato fino alla banderuola della maistra.

      Sandokan, a quel grido, si rizzò. Gettò uno sguardo sul ponte del suo prahos e uno su quello che veniva dietro a venti soli passi lontano, e parve che fremesse. Attraversò la coperta e andò a mettersi egli stesso al timone. Non bisogna scherzare negli arrembaggi, dove il più piccolo fallo può causare un urto e una catastrofe. Egli respinse Patau.

      – Il cannone di prua non domanda che di ruggire – gli disse. – Fa in modo che possa mordere.

      – Bene, capitano, morderà – rispose il Malese.

      A un suo fischio sei dei più risoluti pirati si misero ai lati dell’abbronzato pezzo che pareva volesse rizzar da solo la fumigante bocca verso gli orizzonti del mezzodì.

      I due prahos parvero accelerassero la corsa. In due bordate si spinsero innanzi di quattrocento metri, scuotendo di dosso la spuma delle onde. I quaranta pirati balzarono in piedi come un uomo solo colle armi di già in mano, l’occhio sanguinoso fisso al sud ove scorgevasi un punto giallastro che sembrava radere l’orizzonte a tratti, ora scomparendo come se fosse colato a picco e ora rialzandosi impercettibilmente, ma tanto da poterlo scorgere nuovamente e riconoscerlo non già per la bianca spuma di un’onda ma per la vela di un prahos che veleggiava verso l’est.

      – È una vela! – esclamò un Battiasso dalla statura colossale, dalla tinta color ferro.

      – E chi dice di no? – domandò un Tagalo delle Filippine dalla carnagione rossastra e col viso tagliato a rombo. – Ma non vedi tu, che è sola?

      – Eh! eh! – esclamò un Malese dall’incedere furbesco. – Che sieno fuggiti gli altri due adunque?

      – Bisognerà crederlo, Ragno di Mare – rispose Patau volgendosi verso il suo compatriota. – Vi ha da scommettere che gli altri due hanno volto la prua al sud o che hanno naufragato durante la notte. Buon per loro, che avrei voluto veder l’equipaggio danzare sotto il ferro del mio cannone.

      – Silenzio là! – esclamò Sandokan. – Ai vostri pezzi voi; alle carabine i moschettieri.

      La conversazione fu tagliata nettamente. Gli artiglieri si precipitarono ai loro pezzi e tutti gli altri, eccetto quattro uomini destinati alla manovra del prahos, si affollarono a prua e alle murate, pronti ad avventarsi all’assalto al primo abbordaggio. In un minuto il più profondo silenzio regnò sui due legni pirateschi che veleggiavano l’un accanto all’altro; tutti gli occhi fissavano la bianca vela che lenta lenta ingrandiva, gareggiando nel riconoscere prima la portata, gli uomini e le armi.

      Passò mezz’ora senza che la minima parola fosse pronunciata a bordo, tanta era l’autorità di Sandokan su quegli uomini di solito così turbolenti e durante questa mezz’ora la vela si accostò ai due rapidi prahos che manovravano in maniera da tagliare la ritirata dell’est e dell’ovest. Lasciato il varco al sud e al nord, sgombri per un gran tratto d’ogni terra, un inseguimento diventava su quelle due vie un nunnulla e l’abbordaggio sicuro. Con un uomo come Sandokan non vi era da sperare nella fuga; bisognava dare o accettare battaglia, pugnare finché restava sangue nelle vene e poi soccombere.

      Man mano che si avvicinavano i due rapidi legni dei pirati, la vela ingigantiva lasciando vedere a poco a poco le murate del vascello, che fu in breve riconosciuto per un gran prahos mercantile, uno di quei legni che esercitano il lucroso traffico fra le isole della Malesia, e che uno dei pirati, benché fosse abbastanza distante, asserì essere uno dei tre scorti il giorno precedente.

      – Yanez mi aveva parlato di tre navigli – mormorò Sandokan. – Dove si sono cacciati gli altri due?

      Si morse le labbra