Barrili Anton Giulio

Terra vergine: romanzo colombiano


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Alonzo Pinzon mandò a terra i mastri d'ascia per cercare il legname adatto e tagliare alla svelta un altro timone. Frattanto, poichè la sua caravella faceva acqua, i marinai si mutarono in calafati, e si diedero a fabbricare con vecchi cavi disfatti le stoppe catramate, che con scalpelli e mazzuoli dovevano poi ficcare nei comenti del fasciame, nelle ossature, nei nodi del legname, intorno ai cavicchi, e dovunque bisognasse, ricoprendo poi ogni cosa di pece.

      La Nina approfittò di tutto quel tempo per cambiar velatura. Le sue vele latine si mutarono in quadre, e alle antenne, per conseguenza, furono sostituiti i pennoni. Per tal guisa, di caravella che era, e somigliante ad uno sciabecco, si trasformò in una specie di brigantino a palo. Quanto alla velatura, s'intende; non già quanto alla alberatura. Le caravelle portavano bensì tre alberi, il trinchetto, l'albero di maestra e l'albero di mezzana, ma quest'ultimo era assai più avanzato sulla poppa e più corto che non sia nei brigantini a palo d'oggidì; d'onde la conseguenza che non fosse molto larga la vela, artimone o mezzana che vi piaccia chiamarla, nella sua forma triangolare e latina, oppure randa di poppa, nella sua forma quadra.

      Quando la Nina spiegò al vento la sua velatura nuova, dovette affrontare i giudizi delle altre navi, che l'aspettavano per muovere di conserva con lei. Il marinaio è criticatore per eccellenza; figuratevi se poteva essere risparmiata la Nina, il giorno che si presentò in riga così trasformata. La critica alle sue vele fu come un sorriso, il primo, in mezzo a tanti giorni di nera malinconia.

      – Sarà bella, – diceva uno, – ma mi pare un po' goffa.

      – Già, – soggiungeva un altro, – come un contadino di Biscaglia, quando mette un abito nuovo.

      – E guardate, – entrava a dire un terzo, – tra i pennoni e gli alberi, che stonatura di tinte!

      – Si capisce; i pennoni son nuovi, e gli alberi son vecchi.

      – Albero vecchio… fa buon fuoco.

      – E quelle trozze! dovrebbero stringere un po' meglio.

      – Aspettate che bevano, e stringeranno, stringeranno anche troppo. —

      Insomma, ognuno voleva dire la sua. E l'almirante, passeggiando gravemente sul ponte della Santa Maria, poteva, come suol dirsi, sentir suonare tutte le campane, ad una ad una, e magari tutte insieme.

      Su tante, egli ne sentì una che lo colpì, facendolo voltare di soprassalto. Due marinai stavano appoggiati al capo di banda, un po' in disparte dai loro compagni, e ragionavano di cose vane, non tali da destare l'attenzione dell'almirante. Ma il tono è quello che fa la musica; e quei due cantavano in un tono che doveva far senso a messer Cristoforo Colombo. Parlavano, a farvela breve, in vernacolo genovese. Come mai due genovesi a bordo? Ed egli non ne sapeva nulla?

      L'equipaggio delle tre caravelle non lo aveva scelto lui. Quella gente era stata presa per forza, nella maggior parte; e il resto era stato tirato dall'esempio dei fratelli Pinzon. A Palos, ad Huelva, a Moguer, erano tutti valenti marinai; si potevano prender tutti ad occhi chiusi. E un po' per una ragione, un po' per l'altra, l'almirante non aveva presieduto alla formazione della sua marinaresca. Quanto al nome di tutti, alla patria e alle altre particolarità di quella gente, erano cose che egli avrebbe conosciute via via, durante il viaggio, senza bisogno di leggere il registro, che era tenuto dal suo primo pilota.

      Immaginate dunque la dolce commozione che messer Cristoforo Colombo provò in quel giorno e in quell'ora. La parlata della madre patria è sempre la più soave all'orecchio dell'uomo, quando egli si ritrova fuori paese. Egli accorre al suono conosciuto, come ad una festa dell'anima; ascolta giubilante, vorrebbe subito barattar parole anche lui, come se volesse provare a sè stesso che quell'idioma, che è senza dubbio il più bello del mondo, egli non lo ha dimenticato. E parlandolo, dopo tanti anni, in una regione lontana, egli sente in quell'idioma, in quel vernacolo natìo, un gusto, un sapore di novità, che gli è fonte di gioie inattese, rivelazione di arcane bellezze.

      Ma per allora non era il caso di fermarsi a discorrere. La dignità del comando voleva che l'almirante tirasse di lungo; e il momento, poi, non era da chiacchiere. Le caravelle erano in riga, bisognava partire. La Santa Maria si mosse per la prima dall'ancoraggio della Gran Canaria, dirigendosi alla Gomera, dove aveva lasciato a terra una squadra d'uomini per far provvista di viveri. Era una domenica, il 2 di settembre, un mese dopo la partenza da Palos.

      Per andare alla Gomera, si passava davanti a Teneriffa, che è l'isola centrale del gruppo delle Canarie. Il gran picco di Teneriffa era proprio allora in piena eruzione vulcanica; maraviglioso spettacolo, che per la maggior parte dei marinai di Cristoforo Colombo poteva dirsi anche nuovo. Udendo i boati della montagna, e i tuoni frequenti che facevano tremar l'aria tutto intorno, vedendo la immensa colonna di fumo che usciva a fiotti dall'alto cratere, le fiamme che guizzavano in mezzo a quel fumo, i torrenti di lava che scendevano rosseggianti nella notte lunghesso i fianchi del cono, quei poveri marinai del secolo decimoquinto provarono gli stessi timori che cinque secoli prima dell'Era volgare avevano fatto dare indietro i compagni di Annone Cartaginese.

      Quella eruzione spaventosa di Teneriffa era una ammonizione ai mal capitati. Così, per terremoti e per vulcani, si era inabissata una gran terra, laggiù, di cui narravano oscure leggende; quell'istesso mare che l'aveva inghiottita, non poteva divorare da un momento all'altro anche loro?

      L'arrivo alla Gomera fu occasione di altri timori, non più per i marinai, ma per il comandante supremo. Da poco erano entrati in rada, quando sopraggiunse una caravella, anch'essa spagnuola, che faceva servizio tra quelle isole. Veniva dall'isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, e recava notizie di una straordinaria crociera. Tre navi portoghesi avevano toccato all'isola del Ferro; dai discorsi dei marinai, dalle domande degli uffiziali, si era potuto capire che il re Giovanni II di Portogallo mandava quelle tre navi ad aspettare al varco una spedizione di scoperta, per farne prigioniero il comandante.

      Cristoforo Colombo, non durò fatica ad intendere chi fosse l'aspettato. Sette anni addietro egli era fuggito dal Portogallo, non isperando più nulla da quel re, che sempre lo aveva tenuto a bada con buone parole. Richiamato da lui, che certamente si era pentito e temeva di veder la Spagna far buon viso ai disegni del navigatore Genovese, non aveva voluto a nessun patto ritornare a Lisbona. Ciò che il Portoghese temeva, era accaduto; tardi, veramente, ma in tempo per nuocere alla fortuna del Portogallo, i reali di Castiglia avevano dato a Cristoforo Colombo le navi e gli uomini per tentare l'impresa dell'Oceano. Nuove isole, fors'anche continenti, sarebbero stati dunque scoperti a profitto di Spagna. Ma non erano del Portogallo tutte le nuove terre di là dai confini d'Abila e Calpe? Già troppo era che Castiglia vantasse diritti sulle Canarie, e di tanto in tanto, dopo l'impresa del Bethencourt, vi facesse atti di padronanza. Niente altro doveva sperare, nient'altro ambire la corona di Castiglia in un campo oramai devoluto alla operosità portoghese.

      Aiutavano questa pretensione, la fortificavano certamente nell'animo del re Giovanni, le scarse cognizioni geografiche e cosmografiche del tempo. Dove andava infine il navigatore Genovese? di là dalle Azzorre? di là da Madera? di là dalle isole del Capo Verde? Tutte conquiste portoghesi eran quelle; e portoghese doveva essere egualmente tutto ciò che poteva ritrovarsi più in là. Ma se una grande scoperta fosse fatta per conto della Spagna, difficilmente si sarebbe potuto contenderne alla Spagna il possesso. Con la presa di Granata e lo sterminio completo della potenza moresca, i reali di Castiglia e d'Aragona si ritrovavano forti e liberi come non erano stati mai; la riunione di tutte le Provincie spagnuole sotto un solo scettro segnava la decadenza del Portogallo. Una conquista oltre i mari, sui confini dell'Asia, di quell'Asia a cui miravano allora tutti gli sforzi della Corte di Lisbona, avrebbe dato il tracollo alla potenza portoghese. Donde la necessità urgente di mettere ostacolo all'impresa di Cristoforo Colombo, e ad ogni costo impadronirsi di lui. E perchè, dopo tutto, non si poteva tentare con forze portoghesi la medesima impresa? Tre navi allestite per catturarlo, potevano anche proseguire il viaggio di scoperta, giovandosi dei suoi disegni e della sua direzione. Comandante con le braccia legate, avrebbe ad ogni modo raggiunto il suo fine e guadagnata la sua gloria. E forse, chi sa? era meglio andar prigioniero, ma rispettato, a scoprire un nuovo mondo, in un primo viaggio, che ritornare incatenato ed umiliato dal terzo, dopo aver fatta e assicurata la conquista di quel nuovo mondo ad un monarca sconoscente ed ingrato.

      Ma non è dato agli