Barrili Anton Giulio

Terra vergine: romanzo colombiano


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star certi che avrebbe fatto egualmente quello che fece, appena udite le notizie della crociera portoghese. Ordinò prontamente che si smettesse di far provvigioni, richiamò tutti gli uomini a bordo, e fece spiegare le vele.

      Le tre caravelle lasciarono l'ancoraggio il giovedì 6 settembre, due ore innanzi l'alba. Allontanandosi un buon tratto verso ostro, l'almirante sperava di uscir dalla vista del nemico, caso mai questi avesse lasciati i paraggi dell'isola del Ferro per muovergli incontro. Un vento fresco che era sorto nella notte, gli dava buona speranza di riuscire nell'intento. Ma quella brezza d'improvviso cessò; e le tre caravelle dovettero restarsene tutto quel giovedì, ed anche il venerdì, con le vele penzoloni. Per fortuna, l'almirante aveva guadagnato tre ore di cammino, e non era probabile che il vento delle isole giovasse tanto alle navi portoghesi, da spingerle sulla sua strada. Neanche era probabile che esse si fossero spiccate da ponente dell'isola del Ferro, dove potevano egualmente vigilare a destra e a sinistra di quell'arcipelago. Piuttosto era da temere che toccassero alla Gomera, sapessero del passaggio di lui e muovessero a dargli caccia, appena il vento si fosse levato.

      Ed egli spiava ansiosamente quel vento, che si levò soltanto sul mattino del sabato. Ma non era un buon vento; spirava da ostro, e spingeva le caravelle sull'isola del Ferro. Ore terribili furono quelle per lui. Ma anche per le navi portoghesi quel vento soffiava contrario. Non era dunque perduta ogni speranza per lui.

      Sull'alba della domenica, quel vento malaugurato cambiò finalmente, e le caravelle lo ebbero in fil di ruota. Allora l'almirante rese grazie a Dio della buona ispirazione che gli aveva mandata, di far mettere le vele quadre alla Nina, che con le vele latine non avrebbe potuto camminare di conserva con le altre, nè per conseguenza sottrarsi con esse al pericolo. Messa tutta la sua tela al vento, la piccola squadra di Cristoforo Colombo, in un giorno e nella notte che seguì, si allontanò quarantadue leghe dalla isola del Ferro. E naturalmente perdette di vista quell'ultima terra occidentale del mondo antico. Che gioia, per Cristoforo Colombo, non veder più che acqua dintorno a sè, quanto andasse attorno la vista!

      Ma era scritto lassù che quando egli era lieto non lo fossero egualmente i suoi marinai. Essi avevano veduto con terrore il picco di Teneriffa vomitar fumo e fiamme. Con altrettanto terrore videro quella immensa distesa d'acque, forse la prima che navigatori vedessero, senza certezza di un lido. E un lido non si aspettavano di ritrovare laggiù, sebbene l'almirante assicurasse di doverlo ritrovare a settecento leghe oltre lo stretto di Gibilterra; s'aspettavano invece di veder sorgere dagli abissi i mostri marini che avrebbero capovolte le navi e castigati i temerarii violatori dei segreti dell'Oceano. Quante volte non fu costretto Cristoforo Colombo a chetarli, a fare il suo sermoncino cosmografico a quei rozzi marinai, tentando di persuaderli della vanità delle loro paure! Lo stavano a sentire; lì per lì sembravano persuasi, pieni d'insolito ardimento; poi ricascavano nella loro viltà, tremavano, e si lagnavano peggio di prima.

      Altra cagione di sgomento fu il giorno 11 di settembre, a cento cinquanta leghe dall'isola del Ferro, quando videro galleggiare sulle acque un pezzo d'albero di gabbia. Così ad occhio e croce si poteva giudicarlo appartenuto ad un naviglio di cento venti tonnellate. Ma il naviglio, dov'era? Sicuramente sprofondato negli abissi dell'Oceano. Ugual sorte non era riserbata anche a loro?

      Lo sgomento si mutò in alto terrore, quando osservarono la bussola, sei giorni dopo aver trovato l'avanzo della barca naufragata. L'ago magnetico, scambio di volger la punta alla stella polare, piegava di cinque o sei gradi verso maestro. Che voleva dir ciò? Entravano essi in una regione del mondo ove le leggi di natura non valevano più? E lo sviamento dell'ago, ogni giorno osservato con ansia, si vedeva ogni giorno aumentato.

      Da parecchi giorni l'almirante aveva notato il fenomeno, e temeva che lo notassero altri. Quando il guaio fu avvenuto, egli dovette inventare una spiegazione plausibile del fatto.

      – Che credete? che la calamita volga la punta alla stella polare? La volge invece ad un punto fisso ed immobile. La stella polare, come ogni altro corpo celeste, fa i suoi mutamenti nello spazio, girando bensì intorno a quel punto invisibile. Ed ecco perchè qualche volta vedrete la calamita scostarsi dalla direzione della stella polare. Nel fatto è la stella polare che si scosta. —

      Si persuasero i piloti, che avevano una grande opinione della dottrina astronomica di Cristoforo Colombo. Persuasi loro, si persuasero anche i marinai, che non guardavano tanto nel sottile.

      Ed era tempo che una spiegazione fosse trovata, anche falsa; perchè già tra i marinai si andava ricordando la storia di un luogo lontano sul mare, dove i chiodi ed ogni altro genere di ferramenta si spiccavano dai navigli, per volarsene ad un certo promontorio incantato, lasciando che i legni si sfasciassero e colassero a fondo con le povere ciurme. Di sicuro quel promontorio esisteva, era una montagna di ferro, o d'altra diavoleria che tirasse a sè ogni specie di metalli; e quella montagna non doveva essere lontana. Già infatti l'ago calamitato della bussola si volgeva da quella parte; ancora una cinquantina di leghe, un centinaio al più, e le tre caravelle sarebbero state attirate verso quella montagna metallica, per far la fine di tante e tante altre. I marinai narravano, senza saperlo, una favola orientale, fatta correre dai novellieri arabi, per tutte le popolazioni marinaresche del Mediterraneo.

      Cristoforo Colombo non si era apposto al vero, immaginando la sua famosa dichiarazione dello strano fenomeno. Ma lì per lì quella dichiarazione faceva buon giuoco; ed anche, nello stato delle cognizioni fisiche ed astronomiche del tempo suo, poteva passare per una divinazione. Oggi, con tante ipotesi sui poli magnetici, sul loro numero e sulla loro distribuzione, non ne sappiamo più di lui. Conosciamo le deviazioni dell'ago calamitato in tutte le regioni del globo, ne abbiamo anche delineate esattissime tavole; ma la causa del fenomeno costantemente ci sfugge. Per possedere il segreto di tutti i congegni che fanno muovere due sottili lancette sopra un quadrante di porcellana, un fanciullo non dubiterebbe di disfare l'orologio. Ma noi non siamo più fanciulli, pur troppo!

       Capitolo II

      Getta l'àncora e spera in Dio

      La calma ritornava negli animi sbigottiti. Ma era la calma tenue del soldato, che tra una battaglia e l'altra gode il riposo dell'avamposto, mettendo a guadagno tutte le ore di quiete, pure avendo sempre nello spirito una vaga inquietudine, che gli leva la voglia di pensare alle cose lontane nello spazio o nel tempo. Certamente, regna la quiete intorno a lui, ma è quiete che precede la tempesta. Il sentiero è sgombro, davanti a lui, ma l'insidia è vicina; la morte può stare in agguato dietro quel canto di strada che verdeggia là in fondo. E verso quel fondo: si guarda mal volentieri, anche dai più coraggiosi. Chi è di servizio, ci pensi.

      Anche laggiù, sull'Oceano, erano calme le vie. Il sole splendeva, senza arrostire i cervelli; l'aria era dolce, mitissima; un aprile di Andalusia, per usare una frase dell'Almirante, un aprile d'Andalusia, a cui non mancava che il canto del rosignuolo, per far l'illusione compiuta.

      Cristoforo Colombo ebbe sempre una gran tenerezza per il canto del rosignuolo. Il ricordo del cantore dei boschi ritornava spesso nelle sue relazioni di viaggio e nel suo giornale di bordo. Ma se per allora mancava il rosignuolo, una rondinella di mare e una cingallegra erano venute a svolazzare intorno alle caravelle. Passi per la rondinella di mare; è suo uffizio di volare sulle acque. Ma la presenza di una cingallegra non s'intendeva egualmente laggiù, se non immaginando molto vicina la terra.

      E terra vicina immaginavano i marinai, argomentando dalla presenza di quel grazioso uccello silvano in una così lontana latitudine marina. Ma non tutti la pensavano a quel modo; particolarmente i nostri due genovesi.

      – Ahimè, povera parissòla, – diceva uno di essi al suo fedele compagno. – Bisognerebbe conoscere per quali traversie abbia dovuto sperdersi da queste parti, e che raffiche indiavolate l'abbiano gittata in alto mare. Da principio si sarà rifugiata sulla gabbia di qualche naviglio. Poi, seguitando questo vento di levante…

      – Avrà perduta la tramontana; – interruppe l'altro, che era anche il più faceto dei due. – E un bel giorno, veduto questo gran verde, l'avrà scambiato per una prateria. Ci starà grassa, ci starà!

      – Così noi, sperduti per il mondo! – mormorò l'altro, sospirando.

      Ma al compagno non garbavano questi sospiri.

      – Ohè, Cosma! – esclamò.