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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte III


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reciproca illusione, ma per parecchio tempo ancora entrambi, agitati già forse da dubbi, scrupoli e dolorosi ricordi, ma schietti, sinceri, in buona fede nei loro intenti e nelle loro speranze. Quando questa buonafede verrà meno nel popolo e nel principe, sarà segno che retrogradi e demagoghi, gesuiti e mazziniani hanno compita l'opera loro.

      O io m'inganno a partito, o questa (a volerla fare) è la psicologia, positivista davvero, che in quell'ambiente e in quel momento ci fa scoprire i documenti umani di questa storia.

      In forza di quell'equivoco niuno porrà mente alle riserve, che il Papa ha fatte, agli ammonimenti quasi severi e corrucciati, che si contengono nelle sue due allocuzioni del 10 febbraio e del 30 marzo. E le parole stesse, ch'egli, parlando al popolo dal balcone del Quirinale, ha immediatamente soggiunte al suo famoso: «benedite, gran Dio l'Italia» niuno le ha sentite o le ha volute sentire. Eppure egli avea detto chiaro e tondo: «non mi si facciano domande, che non posso, non debbo, non voglio ammettere,» e Pellegrino Rossi, che sentì quelle parole, disse, volgendosi a Marco Minghetti, ch'era con lui: «il Papa ha ricorso a un rimedio eroico; per questa volta sarà esaudito, ma guai, se si avvisasse di riparlare al popolo; ogni suo prestigio sarà perduto.» E così fu in realtà!

      D'ora innanzi si procede più in fretta, ma la fiducia reciproca va scemando nel Papa e nel popolo, appunto perchè il primo non concede, nè resiste a tempo, e la concessione è sempre più larga o slargata al di là delle sue intenzioni, ed al secondo pare sempre di non aver nulla ottenuto, se non ottiene di più.

      Così in poco d'ora, dal 12 febbraio al 10 marzo, si passa da un Ministero misto di laici e di prelati ad un Ministero quasi laico del tutto ed in cui entra col Pasolini e col Minghetti Giuseppe Galletti, i primi due le più spiccate figure del partito riformista e moderato nello Stato Pontificio, l'altro lo specimen precoce di quei radicali ed ex cospiratori, che a cuor leggero trapasseranno dal Ministero Papale alla rivolta del 16 novembre, da questa alla Costituente, dalla Costituente alla Repubblica.

      Il 14 marzo anche Pio IX concesse la Costituzione, ed il Ministero che doveva attuarla, non solo non l'avea pensata e compilata lui, ma neppure la conosceva, perchè manipolata in segreto da una Commissione di prelati e di cardinali. Pellegrino Rossi, appena vide quell'informe intreccio di poteri, di giurisdizioni e di diffidenti cautele, annientantisi l'una coll'altra, la giudicò così: «è una guerra legalizzata fra sudditi e sovrano;» giudizio profondo, degno dell'uomo, ma giudizio solitario allora, e a cui nessuno partecipò.

      C'era ben altro! Ben altra guerra premeva: la guerra d'indipendenza, il porro unum necessarium del Balbo, ed ecco il Papa in conflitto prima di tutto con sè stesso e coll'ufficio suo di pastore di tutti i Cattolici; ecco che il Ministero, il quale nella sua maggioranza non chiede di meglio che far la guerra e assecondare l'impeto d'entusiasmo, da cui è spinto tutto il paese, ecco che il Ministero si trova tosto alle mani il più intricato dei problemi: far dichiarare al Papa la guerra contro una nazione cattolica, o come principe metterlo in aperto contrasto con gli stessi suoi Ministri e coi sudditi, tutti d'un animo in tale questione.

      L'unica soluzione del problema pare una dieta federativa di stati italiani, a cui partecipi il Papa e che dichiari essa la guerra e stabilisca essa il contributo d'uomini e danaro spettante a ognuno dei confederati. Così la responsabilità diretta del Papa sarebbe eliminata, ed i suoi scrupoli, legittimi o no, sarebbero quietati.

      Chi n'avesse il tempo, signore, bisognerebbe seguire questo negoziato in tutte le sue fasi, vederlo trattato sotto tutte le forme, travagliarvisi intorno gli animi più elevati e i più eletti ingegni del tempo, indagare perchè non riesca mai e quanto per colpa delle intrinseche sue impossibilità, quanto per colpa degli eventi e quanto infine per colpa degli uomini. Certo la sua non riescita è la cagione più larga della rovina del gran moto del 1848, ma Pio IX, si noti bene, ci ha forse meno colpa di tutti gli altri, meno di certo degli statisti Piemontesi, i quali temono sempre di compromettere le aspirazioni dinastiche di Casa Savoia, meno di certo del Borbone di Napoli, il quale in piena malafede non pesca mai in questo negoziato se non un mezzo indiretto per domare la ribellione di Sicilia.

      Ciò è dimostrato dalle strane vicende della delegazione napoletana venuta in Roma a trattare e in cui fa la sua prima apparizione politica Ruggero Bonghi, e da quelle non meno strane dei negoziatori Piemontesi fino al Rosmini, il più illustre, il più sincero, il più convinto di tutti, e che perciò appunto si trovò alla fine sconfessato da' suoi stessi mandanti.

      Se non che mentre le pratiche diplomatiche per la Lega e la Dieta si trascinavano senza conclusione in difficoltà bizantine, i fatti s'incaricavano essi di concludere da sè soli.

      Carlo Alberto è già in campo contro l'Austria. Volente o no Pio IX, partono da Roma e da tutto lo Stato Pontificio i volontari e le truppe sotto la guida del Durando e del Ferrari, ed il Durando, con un proclama fornitogli dalla penna romantica e neoguelfa, che ha scritto l'Ettore Fieramosca e il Niccolò de' Lapi, bandisce la guerra santa al grido di: Dio lo vuole; evoca i ricordi delle Crociate, di Alessandro III, dei liberi Comuni vittoriosi a Legnano; e passa il Po.

      Quando e dove mai s'era data una situazione politica simile a questa? Pio IX è già in guerra contro l'Austria ed ha ancora ai suoi fianchi l'ambasciatore Austriaco come in piena pace; i Ministri vogliono in cuor loro la guerra, e per calmare la collera del Papa sconfessano il Durando e il suo proclama (povero espediente in verità, e poco degno dei valentuomini che l'adoprarono) l'Austria ed i Gesuiti agitano dinanzi al Papa lo spettro d'un immaginario scisma germanico; la contraddizione tra il pontefice e il principe costituzionale sta per scoppiare; niuno sa più quale responsabilità prevalga, se la cattolica del Pontefice o la costituzionale del Ministero, ed ecco l'Enciclica del 29 aprile 1818, che come uno schianto di fulmine illumina per un istante la tenebra in cui tutti camminiamo a tastoni, poi la riaddensa subito più fitta e più minacciosa di prima.

      Con essa Pio IX separava nettamente la causa sua e del papato dalla causa italiana, e quell'Enciclica è rimasta nella storia come l'affermazione più solenne della defezione di Pio IX. È giusto; nè vi ha quindi vitupero che sia stato risparmiato a quell'atto: Roma e l'Italia ne inorridirono; l'Austria e i Gesuiti ne gongolarono come d'una grande vittoria.

      Ma questi effetti così potenti e così disastrosi furono essi veramente previsti e voluti da Pio IX? Il popolo Romano non capì alla prima il latino dell'Enciclica, ma forse neppure Pio IX si rese ben conto di tutta la portata di quel documento. Il Gioberti lo crede, e pensa che per troppe cose egli, nella sua scarsa coltura, dovea rimettersene al giudizio degli altri.

      Ad ogni modo, le proteste di Pio IX, le sue meraviglie coi Ministri, ed in ispecie con l'amico più fido, qual era per lui il conte Giuseppe Pasolini, l'aver pure ventilato ora il progetto di recarsi in persona a Milano, le sue promesse di riparare al mal fatto, l'averlo in più modi tentato, cogli uffici ai Ministri dimissionari, affinchè rimanessero, con una chiara allocuzione in italiano per essere ben inteso alla prima, colla missione Farini al campo di Carlo Alberto per assicurare la qualità di belligeranti in piena regola alle sue truppe e ai volontari, colla lettera, tanto celebre, quanto inefficace, all'imperatore d'Austria, tuttociò, se dimostra la sua inesperienza politica, dimostra altresì, mi sembra, ch'egli era forse il solo a credere incoscientemente di non aver fatto tutto il male che gli imputavano, nello stesso modo che non avea creduto coll'amnistia d'aver fatto tutto il bene, onde gli era venuta così gran gloria.

      Comunque, questa in realtà è la fine dell'idillio italico-papale!

      Da un lato lo sdegno popolare, arroventato dalle vecchie sètte, che rompono la tregua, si muterà ben presto in rivolta; dall'altro la reazione farà forza di remi per ripescar questo Papa, che, Dio sa come, gli era scappato di mano. Tant'è che monsignor Pentini, il quale avea scritta esso l'allocuzione papale in lingua italiana, con cui si volea medicare il cattivo effetto dell'Enciclica del 29 aprile, confidò al Pasolini (e questi n'ebbe poi la prova) che di nascosto del Papa quella buona lana del cardinale Antonelli l'avea sulle bozze di stampa sostanzialmente mutata, facendo il 1º di maggio affiggere sulle muraglie di Roma un documento, che non solo ribadiva, ma peggiorava, se mai, il latino dell'Enciclica.

      Siamo in piena commedia dell'arte: Pantalone vittima delle astuzie del suo servo Brighella; ma l'ilarità dura poco, che in un subito tutta Roma è in tumulto; la Guardia Civica frena a stento gli eccessi;