nulla di più ardito e di più ingegnoso da fare che andarsene, Ciceruacchio è ancora il solo protettore di Pio IX; sorge il Ministero Mamiani, in cui balenò allora, precorritrice di trent'anni dopo, la mezzatinta soave del governo progressista; il Papa è già costretto di commettersi ad uomini, dei quali diffida; Pellegrino Rossi sinceramente si duole che Pio IX «abbia inutilmente sciupato un tesoro di popolarità;» l'Ambasciatore d'Austria invece se ne va finalmente da Roma, fregandosi le mani e dicendo: «ho messo il Papa in tale impiccio, che non ne leverà i piedi mai più!»
La parte più nobile del Ministero Mamiani fu la ripresa delle trattative per la Lega; la più originale il tentativo d'attuare in pratica la Costituzione del 14 marzo.
Nella mente del Mamiani (mente speculativa e letteraria per eccellenza) quell'informe aborto piglia le fattezze estetiche e le dialettiche simmetrie d'un sistema filosofico. Un po' alla volta il Mamiani si persuade che non può darsi anzi più bel modello d'irresponsabilità costituzionale di quella d'un Sovrano, che ha i piedi in terra e la testa in cielo, che collocato in tal regione intermedia fra il mondo di là e il mondo di qua, lassù prega, benedice e perdona, e quaggiù lascia a Ministri, umanamente fallibili e peccatori, la cura delle faccende terrene. Questa posizione a mezz'aria non piacque però a Pio IX, il quale si mostrò sempre ostile e diffidente al Mamiani, fino a sospettarlo ingiustamente di tradimento, e il Ministero Mamiani trascinò la vita in una crisi perpetua, resa ognora più grave dalle condizioni generali d'Italia, per la quale, colla giornata del 15 maggio a Napoli ed il richiamo delle truppe borboniche, colle successive vittorie degli Austriaci, contro i Pontifici a Vicenza, contro i Toscani a Curtatone, contro i Piemontesi a Custoza e a Milano, si chiudeva ormai tutto un periodo della sua rivoluzione e se n'apriva un'altro; si chiudeva cioè il periodo dell'esperimento Giobertiano e si apriva quello dell'esperimento Mazziniano. Il 2 agosto il Ministero Mamiani si dimise; successe fino a mezzo settembre l'interregno d'un Ministero del conte Eduardo Fabbri, durante il quale la dissoluzione organica dello Stato s'andò accelerando sempre più, e il 16 settembre era Ministro Pellegrino Rossi, destinato a rappresentare ed a pagare colla sua nobile vita il supremo sforzo, forse l'ultimo per sempre, di tener uniti ancora Pio IX e il suo popolo, il Papato cattolico e la causa della libertà e dell'indipendenza italiana.
Chi era quest'uomo, che osava tanto e in un'ora così disperata?
Compromesso nell'impresa Murattiana del 1815, avea esulato in Isvizzera; colà avea tenuto alto il nome italiano e, facendosi largo coll'ingegno e gli studi, era salito ai primi onori della repubblica. La sua fama, come scienziato, pubblicista e uomo di Stato era già europea, quando nel 1833 era andato a Parigi, chiamatovi dal Guizot, che gli affidò la cattedra di economia politica nel Collegio di Francia. V'era rimasto fra molto favore e non poche contrarietà, ma le aveva vinte tutte, e nel 1839 era Pari di Francia, nel '44 Ministro di Francia a Roma. Come tale, avea assistito alla morte di Gregorio XVI, ai primordi di Pio IX, e vi avea assistito, fedele interprete della politica francese, ma in pari tempo con quel cuore di patriotta e d'italiano, per cui, rivalicando le Alpi dopo quasi trent'anni d'esilio e rivedendo l'Italia: «ho pianto, diceva egli stesso, come un fanciullo,» e nel 1848 avea benedetto suo figlio, che andava volontario in Lombardia a combattere contro gli Austriaci. Di tuttociò sono documento splendidissimo la sua corrispondenza diplomatica e privata col Guizot e le sue lettere a Teresa Guiccioli, scritte quand'egli, dopo la Rivoluzione francese del febbraio, era rimasto in Roma da privato, nell'una e nell'altre delle quali appariscono tutta la profondità, la sapienza, la finezza, l'eleganza d'ingegno di Pellegrino Rossi, e insieme la grandezza d'animo, con cui considera uomini e cose del suo tempo; qualità tutte, rivelate persino dai vari motti del Rossi, così veri e scultorii, suggeritigli dagli avvenimenti, che gli passano sott'occhi e che ho citati via via per concludere che se si ricongiungono quelle qualità di animo e d'ingegno colla probità laboriosa della sua vita pubblica e privata e collo straordinario ardimento di opporsi solo, e mentre tutti gli uomini più eminenti del partito moderato si ritraggono timidi e sfiduciati, di opporsi solo, dico, alla fiumana reazionaria e repubblicana, che irrompe da ogni lato e salvar Roma e forse con essa l'Italia dalla rovina, Pellegrino Rossi è indubitabilmente il solo grand'uomo di Stato, degno di questo nome, che l'Italia abbia avuto prima e dopo il Conte di Cavour.
V'ha chi oppone ch'egli tentò l'impossibile, e lo tentò, perchè imbevuto di quel dottrinarismo, che aveva appreso alla scuola del Guizot. Senza negare gli errori del Guizot e dello stesso Rossi, confesso che non partecipo punto al disprezzo dei cosiddetti uomini pratici per la dottrina e alle loro ammirazioni per certi estemporanei della politica, che la corruzione del parlamentarismo fa spuntare (purtroppo per noi, che siamo l'anima vilis dei loro esperimenti) sempre più fitti e più solleciti che mai. Che se il Rossi tentò l'impossibile, dirò che l'impossibile tenta appunto, come una fata morgana, ingegni ed animi pari al suo. Gli altri (oh non ne dubito!) preferiscono serbarsi ad occasioni più facili.
Comunque, ch'egli tentasse l'impossibile non dovette allora essere in tutto l'opinione de' suoi avversari, se per fermarlo ai primi passi non trovarono altro mezzo che ucciderlo e ucciderlo prima (fu una delle grandi preoccupazioni degli assassini e dei loro mandanti) e ucciderlo prima che egli aprisse bocca nel parlamento, da lui riconvocato pel 15 novembre 1848.
V'ha chi oppone ancora: «e s'egli fosse riuscito? Chi sa quando e come si sarebbero potute raggiungere l'unità d'Italia e la fine del poter temporale dei Papi?» Ah! si crede proprio che i primi e veri autori di questi trionfi nazionali siano i dissennati, che spinsero Carlo Alberto a Novara, o gli scellerati, che trucidarono Pellegrino Rossi il 15 novembre 1848? In verità che, a ragionar così, la storia diviene un bel coefficiente di moralità pubblica e privata! Pel Rossi però c'è una considerazione, che dovrebbe, se non altro, ammansare questi terribili conseguenziarii della storia ed è che i Monsignori Romani (lo dice il Cantù, autorità non sospetta) esecravano il Rossi non meno dei demagoghi e che nascosero così poco la loro gioia per quell'eccidio (lo dice il Padre Curci, allora Gesuita) che molti credettero in quel tempo e credono anche oggi alla loro complicità.
La lucidità, la precisione, la rapidità dei provvedimenti, che Pellegrino Rossi prese subito per frenare l'anarchia dilagante per tutto e infondere nuova vita a un cadavere furono meravigliose. Fra tanta dissoluzione d'ogni utensile di governo e tanta inerzia della parte migliore della cittadinanza, mentre in Roma il clericalume ribaldo lo odia, perchè egli ne combatte gli abusi e i privilegi, e la demagogia, rinvigorita dei gregari peggiori, che vi colano da ogni parte, lo assale, lo insulta, lo minaccia, lo scredita ogni giorno, come un rinnegato italiano, che per ambizione e avidità di lucro s'è fatto strumento di tirannia, egli affronta l'uno e l'altra all'aperto; dice chiaro il suo pensiero, non nasconde nulla de' suoi propositi, non indietreggia mai, tocca a tutto, accenna a rinnovar tutta la vita e l'organismo d'uno stato, che non ha più nè organi, nè vita. Con questo minaccia egli forse la libertà? No, certo! Non solo lascia a Roma infuriare una stampa, di cui nulla si può immaginare di più tristo e di più forsennato, ma discute anzi pubblicamente con essa, ed eletto Ministro alla metà di settembre convoca pel 15 novembre le Camere. Gli si rimprovera di aver voluto esser solo e far tutto. Ma chi dovea egli associarsi, se tutti lo lasciarono solo, e chi adoprare, se nessuno valea quanto lui? Un uomo, che si mette a tale sbaraglio, è naturale, che abbia grande coscienza delle proprie forze e se per indole il Rossi era fiero, sprezzante, sarcastico, ognuno ha i difetti delle proprie virtù e i suoi avversari non potevano certo inspirargli atteggiamento migliore.
Resta la sua politica estera, che si riassume tutta nei negoziati per la lega fra gli Stati italiani. È singolare che il rimprovero di non averla conclusa gli venga principalmente dai Mazziniani, che a quest'ora a nient'altro pensavano, se non a proclamare la repubblica unitaria in Roma, e dai Piemontesi, che appunto ora avevano sconfessato il Rosmini, loro ambasciatore, il quale l'avea quasi conclusa, e null'altro volevano se non un contributo immediato d'uomini e di denaro per la ripresa della guerra. A che pro la lega dei Principi per chi voleva abbatterli tutti? A che pro il contributo d'uno Stato disfatto e perchè, se il Rossi, al pari del Gioberti, del Rosmini, di tutti i maggiori uomini italiani, giudicava una follìa disastrosa romper di nuovo la guerra all'Austria? Fatto è che il progetto sostituito dal Rossi a quello del Rosmini ha ben più l'aria di una dilazione, che d'altro, siccome il Congresso federativo promosso dal Gioberti a Torino non fu in sostanza che un'accademia, e la Costituente bandita a Livorno dal Montanelli non fu che il preambolo della repubblica del Mazzini.
S'approssimava