Annie Vivanti

Vae victis!


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lentamente, con passo deliberato, verso di loro; ed esse indietreggiarono tenendosi ancora per mano e levando su di lui gli occhi stellanti e spauriti.

      Egli era molto alto e molto largo di spalle e torreggiava sopra le tre figurette tremanti.

      Rimase, così, fissandole per alcuni istanti; i suoi occhi chiarissimi andavano da Luisa a Chérie, da Chérie a Mirella, poi tornavano a soffermarsi su Chérie.

      «Ebbene, colombelle?» disse alfine; e rise. «Ci aspettavate dunque? Vi siete vestite da festa per riceverci?» Nei tre paia d'occhi alzati su di lui fluttuava molta paura.

      Egli rise ancora, e mosse d'un altro passo più vicino. Subito tutte e tre indietreggiarono.

      «Ebbene? Perchè non rispondete?»

      Luisa si avanzò d'un passo mettendosi davanti alle altre due, quasi in atto di difesa; poi parlò con voce bassa e tremante:

      «Signore.... spero… che voi e i vostri amici.... avrete la bontà di lasciare questa casa… Come vede.... non siamo che donne, qui.... E siamo sole…»

      «Permetterete a noi di tenervi compagnia,» fece in tono tra l'insinuante e l'ironico Von Wedel; e soggiunse in aria d'amabile interrogazione: «Vostro marito non è qui?»

      «No,» disse Luisa, e al pensiero di Claudio il suo labbro inferiore tremò, come quello d'un bambino che sta per piangere.

      «Ah, non è qui? Ne sono desolato;» disse Von Wedel alzando un piede e poggiandolo, nello stivale infangato, su una sedia di broccato chiaro. «Aspetteremo che ritorni.»

      «Ma,» balbettò Luisa «non torna stanotte.»

      «Ah, no?… Che marito poco galante!» rise l'ufficiale sporgendosi in avanti col gomito sul ginocchio ripiegato, e i suoi occhi chiari e insolenti che finora, anche parlando con Luisa, erano sempre stati fissi su Chérie, errarono sfrontatamente sopra la graziosa trepidante figura della sua interlocutrice. «E dove sarebbe andato?»

      Egli lanciò la domanda con noncuranza, traendosi di tasca un portasigarette d'oro e togliendone l'unica sigaretta che conteneva. «Mi pare che il vostro domestico dicesse che l'avevano mandato a Namur…»

      «No, a Mons,» disse Luisa.

      «Ah già, già – Mons!… Interessante città, Mons.» Picchiò leggermente un'estremità della sua sigaretta sul palmo della mano. «Già. Bella cattedrale, quella di St. Waudru.... Ed è andato solo?»

      Mirella diede un pizzicotto a sua madre. «Taci, mamma! Non dirlo.»

      L'ufficiale l'udì e rise. Presala per un braccio l'allontanò dolcemente dal fianco di sua madre.

      «Ma guarda, guarda!» disse, sempre ridendo, «come siamo furbe e diplomatiche!» E stringendole forte il piccolo braccio la fece indietreggiare traverso tutta la stanza; indi, dandole una lieve spinta la lasciò, e rivolse di nuovo la sua attenzione alle altre due.

      Luisa, che si era lanciata in soccorso di Mirella ristette pallidissima, mentre dal fondo della stanza Mirella, incolume e indoma, la rassicurava cacciando fuori la lingua dietro le spalle del nemico, in segno di sfida e di disprezzo.

      Von Wedel fissava di nuovo Chérie, e sotto l'insolente insistenza di quello sguardo essa tremò come una fiammella al vento.

      «Perchè tremate?» chiese egli. «Avete paura di me?»

      «Sì,» mormorò la fanciulla, chinando il capo.

      Egli rise. «Perchè? Non sono una belva feroce. Ho forse l'aria di una belva feroce?» E le andò più vicino.

      Luisa con un passo si pose davanti a Chérie. «Mia cognata, signore, è molto giovane, e non è avvezza alle attenzioni degli estranei.»

      «Buona donna,» replicò Von Wedel con tranquilla insolenza, «andate un po' a prendermi delle sigarette.».

      E siccome Luisa lo fissava, sbigottita e immobile, egli alzò alquanto la voce. «Sigarette, ho detto. Preferibilmente turche. Vostro marito certo ne avrà. Su! movetevi, buona donna. Eins, zwei, drei – marsch!»

      Per un attimo Luisa esitò; indi si volse e lasciò la stanza; Mirella correndo la seguì.

      Anche Chérie si lanciò per seguirle, ma Von Wedel con un balzo le fu accanto e le afferrò il braccio.

      «Halt, halt!» fece ridendo. «Voi starete qui, colombella; starete qui a discorrere con me.»

      La fanciulla arrossì, impallidì e tremò.

      «Che colombella timida,» disse Von Wedel curvandosi sopra di lei. «E come vi chiamate?»

      «Chérie,» rispose essa, a voce così bassa che quasi non si udiva.

      «Come, come? Chéri? E' a me che lo dici? Altrettanto a te, caruccia mia!»

      E Von Wedel sedette sopra un angolo della tavola chinandosi vicinissimo a lei. «Ma di che cosa hai paura? E di chi hai paura?… Del capitano Fischer?… Di me?… Dei soldati?…»

      «Di tutti,» mormorò Chérie.

      «Di tutti! Ma guarda un po'! E dire che siamo così brava gente,» disse lui, e soffiò una boccata di fumo in lungo getto davanti a sè; poi buttò sul tappeto la sigaretta e la spense col piede. «Ma non sai che non faremmo male ad una mosca, noi? E neppure a un cane,» soggiunse ridendo alla vista di Amour, che comparso in cima agli scalini ne scendeva a piccoli salti zoppicanti, mandando dei guaiti dolorosi. «Tanto meno poi faremmo del male a un'adorabile tortorella come te.»

      Il cane, lamentandosi pietosamente, venne ad appiattarsi ai piedi di Chérie.

      Essa si chinò e lo prese tra le braccia. Evidentemente la bestiola soffriva.

      Von Wedel disse: «Che bravo cagnolino,» e allungò la mano per accarezzarlo, ma Amour ringhiò mostrando i denti e l'ufficiale ritrasse in fretta la mano.

      Luisa riapparve portando delle scatole di sigari e sigarette, e le depose sulla tavola. Mirella che la seguiva scorse Amour tra le braccia di Chérie è ne udì il minaccioso brontolìo. Al suo accorrere la bestiola riprese il suo fioco lamento.

      Mirella lo guardò, gli toccò la zampa, poi volse due occhi saettanti sull'ufficiale: «Cosa gli avete fatto?» gridò, alzando in gesto quasi di minaccia la piccola mano.

      L'ufficiale diede in una risata. «Toh, toh! che piccola Furia! che viperetta!» esclamò. «Del resto puoi portartelo pur via quel cagnaccio! A me le bestie non piacciono.»

      A queste parole Chérie subito si mosse verso la scala portando seco Amour, ma l'ufficiale la trattenne.

      «No, no, no, cara! Dà il cane alla piccola Furia. – Tu resti qui con me!»

      Chérie, mordendosi le labbra per non piangere obbedì; indi si rifugiò accanto a Luisa, mentre Mirella correva di sopra con Amour tra le braccia. Essa lo portò nella camera di Chérie, gli baciò la ruvida testa nera, gli accarezzò la povera zampa che pendeva come spezzata, poi lo adagiò in un cantuccio bene accomodato su di un cuscino.

      Indi tornò giù, correndo, a vedere cosa succedeva.

      Amour lasciato solo espresse la sua sofferenza ed indignazione in lunghi urli e lamenti. Qualche istante più tardi il capitano Fischer, seguìto dal sottotenente Glotz e dai due soldati, scendendo dal suo giro d'ispezione nei solai, udì gli strazianti gemiti e si fermò sul pianerottolo.

      «Cos'è questo rumore? Chi grida così?» chiese rivolto a Glotz.

      «Sarà quel cane, signor capitano, a cui avete dato un calcio poco fa.»

      «Orribile strepito,» disse il capitano. «Fatelo cessare.»

      Allora uno dei soldati entrò nella stanza – e lo fece cessare.

      Il capitano Fischer scese al primo piano seguìto da Glotz.

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