Анна Радклиф

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1


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Tutto era tranquillo nel padiglione, e non sembrando che ci fosse alcuno, ella continuò ad ascoltare; ma finalmente la sorpresa e il diletto fecero luogo alla timidezza; questa aumentò pella rimembranza dei versi scritti a matita, da lei già veduti, e titubò se doveva o no ritirarsi all'istante.

      Nell'intervallo, la musica cessò; Emilia riprese coraggio, e si avanzò, sebben tremando, verso la peschiera, ma non ci vide nessuno: il liuto giaceva sul tavolino, e tutto il resto stava come ce lo aveva lasciato. Emilia principiò a credere di avere inteso un altro istrumento, ma si ricordò benissimo di aver lasciato, nel partire, il suo liuto vicino alla finestra; si sentì agitata senza saperne il motivo; l'oscurità, il silenzio di quel luogo, interrotto sol dal lievissimo tremolio delle foglie, aumentò il suo timore infantile; volle uscire, ma si accorse che si indeboliva, e fu obbligata a sedere; mentre procurava di riaversi, i suoi occhi incontraron di nuovo i versi scritti col lapis; sussultò come se avesse veduto uno straniero, poi sforzandosi di vincere il terrore, alzossi e si avvicinò alla finestra; altri versi erano stati aggiunti ai primi, e questa volta il suo nome ne formava il soggetto.

      Non le fu più possibile di dubitare che l'omaggio non fosse a lei diretto, ma non le fu meno impossibile d'indovinarne l'autore: mentre ci pensava, sentì il romore di qualche passo dietro l'edifizio; spaventata, prese il liuto, fuggì ed incontrò i genitori in un sentieruzzo lungo la radura.

      Salirono tutti insieme sopra un poggetto coperto di fichi, d'onde si godeva il più bel punto di vista delle pianure e delle valli della Guascogna: sedettero sull'erba, e mentre i loro sguardi abbracciavano il grandioso spettacolo, respiravano in riposo i dolci profumi delle piante sparse in quel luogo incantevole. Emilia ripetè le canzoni più gradite ai genitori, e l'espressione con cui le cantò ne raddoppiò il diletto. La musica e la conversazione ve li trattennero fino all'imbrunire: i candidi veli che segnavan di sotto a' monti il veloce corso della Garonna avean cessato d'esser visibili; era un'oscurità più malinconica che trista. Sant'Aubert e la sua famiglia si alzarono lasciando con dispiacere quel sito. Ahimè! La signora Sant'Aubert ignorava come non dovesse ritornarvi mai più!

      Giunta alla peschiera, essa si accorse di aver perduto un braccialetto, che si era tolto pranzando, ed avea lasciato sulla tavola, nell'andare al passeggio. Fu cercato con molta premura, specialmente da Emilia, ma invano, e convenne rinunziarvi. La Sant'Aubert aveva in gran pregio questo braccialetto, perchè conteneva il ritratto di sua figlia; e questo ritratto, fatto da poco, era di perfettissima somiglianza. Quando Emilia fu certa di tal perdita, arrossì, e divenne pensierosa. Un estraneo si era adunque introdotto nella peschiera in loro assenza; il liuto smosso ed i versi letti non le permettevano di dubitarne: si poteva dunque concludere con fondamento, che il poeta, il suonatore ed il ladro erano la medesima persona. Ma sebbene que' versi, la musica ed il furto del ritratto formassero una combinazione notevole, Emilia si sentì irresistibilmente aliena dal farne menzione, e si propose soltanto di non visitare più la peschiera senza essere accompagnata da qualcuno dei genitori.

      Nel tornare a casa, la fanciulla pensava a quanto le era accaduto; Sant'Aubert si abbandonava al più dolce godimento, contemplando i beni che possedeva. La sua sposa era conturbata ed afflitta dalla perdita del ritratto; avvicinandosi a casa, distinsero un romore confuso di voci e di cavalli; parecchi servi traversarono i viali, ed una carrozza a due cavalli arrivò nello stesso punto davanti la porta d'ingresso del castello. Sant'Aubert riconobbe la livrea del cognato, e trovò difatti i coniugi Quesnel nel salotto. Essi mancavano da Parigi da pochissimi giorni, e recavansi alle loro terre distanti dieci leghe dalla valle, Sant'Aubert gliele aveva vendute da qualche anno. Quesnel era l'unico fratello della moglie di Sant'Aubert; ma la diversità di carattere avendo impedito di rafforzare i loro vincoli, la corrispondenza tra essi non era stata molto sostenuta. Quesnel si era introdotto nel gran mondo; amava il fasto, e mirava a divenire qualcosa d'importante; la sua sagacità, le sue insinuazioni avevano quasi ottenuto l'intento. Non è dunque da stupire se un uomo tale non sapesse apprezzare il gusto puro, la semplicità e la moderazione di Sant'Aubert, e non vi ravvisasse se non se picciolezza di spirito e totale incapacità. Il matrimonio di sua sorella aveva mortificato assai la sua ambizione, essendosi lusingato ch'essa avrebbe formato un parentado più adatto a servire ai suoi progetti. Egli aveva ricevute proposte confacentissime alle sue speranze; ma la sorella, che a quell'epoca venne richiesta da Sant'Aubert, si accorse, o credè accorgersi, che la felicità e lo splendore non erano sempre sinonimi, e la sua scelta fu presto fatta. Qualunque fossero le idee di Quesnel a tal proposito, egli avrebbe sacrificato volentieri la quiete della sorella all'innalzamento della propria fortuna; e quand'essa si maritò, non potè dissimularle il suo disprezzo per i di lei principii, e per l'unione ch'essi determinavano. La Sant'Aubert nascose l'insulto allo sposo, ma per la prima volta, forse, concepì qualche risentimento. Conservò la sua dignità, e si condusse con prudenza; ma il di lei riservato contegno avverti abbastanza Quesnel di ciò ch'ella sentiva.

      Nell'ammogliarsi, egli non seguì l'esempio della sorella; la sua sposa era un'Italiana, ricchissima erede; ma il costei naturale e l'educazione ne facevano una persona frivola quanto vana.

      Si erano prefissi di passare la notte in casa di Sant'Aubert, e siccome il castello non bastava ad alloggiare tutti i domestici, furono mandati al vicino villaggio. Dopo i primi complimenti e le disposizioni necessarie, Quesnel cominciò a parlare delle sue relazioni ed amicizie. Sant'Aubert, il quale aveva vissuto abbastanza nel ritiro e nella solitudine perchè questo soggetto gli paresse nuovo, lo ascoltò con pazienza ed attenzione, ed il suo ospite credè ravvisarvi umiltà e sorpresa insieme. Descrisse vivamente il piccolo numero di feste, che le turbolenze di quei tempi permettevano alla corte di Enrico III, e la sua esattezza compensava l'arroganza: ma quando arrivò a parlare del duca di Joyeuse, di un trattato segreto, ond'egli conosceva le negoziazioni colla Porta, e del punto di vista sotto al quale Enrico di Navarra era veduto alla corte, Sant'Aubert richiamò l'antica esperienza, e si convinse facilmente che il cognato tutto al più poteva tenere l'ultimo posto alla corte; l'imprudenza dei suoi discorsi non poteva conciliarsi colle sue pretese cognizioni: pure Sant'Aubert non volle mettersi a discutere, sapendo troppo bene che Quesnel non aveva nè sensibilità, nè criterio.

      La Quesnel, nel frattempo, esprimeva il suo stupore alla Sant'Aubert sulla vita trista che menava, diceva essa, in un cantuccio così remoto. Probabilmente, per eccitare l'invidia, si mise poscia a narrare le feste da ballo, i pranzi, le veglie ultimamente date alla corte, e la magnificenza delle feste fatte in occasione delle nozze del duca di Joyeuse con Margherita di Lorena, sorella della regina; descrisse colla stessa precisione e quanto aveva veduto, e quanto non erale stato concesso di vedere. La fervida immaginazione di Emilia accoglieva que' racconti coll'ardente curiosità della gioventù, e la Sant'Aubert, considerando la figlia colle lacrime agli occhi, comprese che se lo splendore accresce la felicità, la sola virtù però può farla nascere.

      Quesnel disse al cognato: « Sono già dodici anni che ho comprato il vostro patrimonio. – All'incirca, » rispose Sant'Aubert, reprimendo un sospiro. – Sono ormai cinque anni che non vi sono stato, » riprese Quesnel; « Parigi ed i suoi dintorni sono l'unico luogo ove si possa vivere; ma d'altra parte, io sono talmente occupato, talmente versato negli affari, ne sono tanto oppresso, che non ho potuto senza grandissima difficoltà, ottenere di assentarmi per un mese o due. » Sant'Aubert non diceva nulla, e Quesnel seguitò: « Sonomi maravigliato spesso, che voi, assuefatto a vivere nella capitale, voi, che siete avvezzo al gran mondo possiate dimorare altrove, sopratutto in un paese come questo, ove non si sente parlare di nulla, e dove si sa appena di esistere. – Io vivo per la mia famiglia e per me, » disse Sant'Aubert; « mi contento in oggi di conoscere la felicità, mentre anch'io per lo passato ho conosciuto il mondo.

      – Ho deciso di spendere nel mio castello trenta o quarantamila lire in abbellimenti, » soggiunse Quesnel, senza badare alla risposta del cognato; « mi son proposto di farci venire i miei amici nella prossima estate. Il duca di Durfort, il marchese di Grammont spero che mi onoreranno della loro presenza per un mese o due. »

      Sant'Aubert l'interrogò su' suoi progetti di abbellimento; si trattava di demolire l'ala destra del castello per fabbricarvi le scuderie. « Farò in seguito, » aggiunse egli, « una sala da pranzo, un salotto, un tinello, e gli alloggi per tutti i domestici, poichè adesso non ho da allogarne la terza parte.

      – Tutti quelli di mio padre vi alloggiavano comodamente, »