nostre idee si sono un po' ingrandite, » disse Quesnel; « ciò ch'era decente in quei tempi, or non parrebbe più sopportabile. »
Il flemmatico Sant'Aubert arrossì a tai parole, ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo.
« Il castello è ingombro d'alberi, » soggiunse Quesnel, « ma io conto di dargli aria.
– E che! voi vorreste tagliare gli alberi?
– Certo, e perchè no? essi impediscono la vista; c'è un vecchio castagno che stende i rami su tutta una parte del castello, e cuopre tutta la facciata dalla parte di mezzogiorno; lo dicono così vecchio, che dodici uomini starebbero comodamente nel suo tronco incavato: il vostro entusiasmo non giungerà fino a pretendere che un vecchio albero inutilissimo abbia la sua bellezza od il suo uso.
– Buon Dio! » sclamò Sant'Aubert; « voi non distruggerete quel maestoso castagno, che esiste da tanti secoli, e fa l'ornamento della terra! Era già grosso quando fu fabbricata la casa; da giovine io mi arrampicava spesso su' di lui rami più alti; nascosto tra le sue foglie, la pioggia poteva cadere a diluvio, senza che una sola goccia d'acqua mi toccasse: quante ore vi ho passate con un libro in mano! Ma perdonatemi, » continuò egli rammentandosi che non era inteso, « io parlo del tempo antico. I miei sentimenti non sono più di moda, e la conservazione di un albero venerabile non è, al par d'essi, all'altezza de' tempi odierni.
– Io lo atterrerò per certo, » disse Quesnel, « ma in sua vece potrò ben piantare qualche bel pioppo d'Italia fra i castagni che lascierò nel viale. La signora Quesnel ama molto i pioppi, e mi parla spesso della casa di suo zio nei dintorni di Venezia, ove questa piantagione fa un effetto superbo.
– Sulle sponde della Brenta, » rispose Sant'Aubert, « ove il suo fusto alto e diritto si sposa ai pini, a' cipressi, e pompeggia intorno a portici eleganti e svelti colonnati, deve effettivamente adornare quei luoghi deliziosi, ma fra i giganti delle nostre foreste, accanto ad una gotica e pedante architettura!
– Questo può essere, caro signor mio, » disse Quesnel, « io non voglio disputarvelo. Bisogna che voi ritorniate a Parigi, prima che le nostre idee possano avere qualche rapporto. Ma, a proposito di Venezia, ho quasi voglia di andarci nella prossima estate. Può darsi ch'io diventa padrone della casa di cui vi parlava, e che dicono bellissima. In tal caso rimetterò i miei progetti di abbellimento all'anno venturo, e mi lascierò trascinare a passare qualche mese di più in Italia. »
Emilia restò alquanto sorpresa nell'udirlo parlare in quei termini. Un uomo tanto necessario a Parigi, un uomo che poteva appena allontanarsene per un mese o due, pensar di andare in paese straniero, ed abitarvi per qualche tempo! Sant'Aubert conosceva troppo bene la di lui vanità per maravigliarsi di simile linguaggio, e vedendo la possibilità di una proroga per gli abbellimenti progettati, ne concepì la speranza di un totale abbandono.
Prima di separarsi, Quesnel desiderò intertenersi in particolare col cognato; entrarono ambidue in un'altra stanza e vi restarono a lungo. Il soggetto del loro colloquio rimase ignoto; ma Sant'Aubert al ritorno parve molto pensieroso, e la tristezza dipinta sul suo volto allarmò assai la di lui consorte. Quando furono soli, essa fu entrata di chiedergliene il motivo; la delicatezza però la trattenne, riflettendo che se suo marito avesse creduto conveniente d'informarnela, non avrebbe aspettato le di lei domande.
Il dì dopo, Quesnel partì dopo aver avuto un'altra conferenza con Sant'Aubert. Ciò accadde al dopo pranzo, e verso sera i nuovi ospiti si rimisero in viaggio per Epurville, ove sollecitarono i cognati di andarli a trovare, ma più nella lusinga di far pompa di magnificenza, che per desiderio di farne lor fruire le bellezze.
Emilia tornò con delizia alla libertà statale tolta colla loro presenza. Ritrovò i suoi libri, le sue passeggiate, i discorsi istruttivi dei suoi genitori, ed anch'eglino godettero di vedersi liberati da tanta frivolezza ed arroganza.
La Sant'Aubert non andò a fare la sua solita passeggiata, lagnandosi di un poco di stanchezza, ed il marito uscì colla figlia.
Presero la strada dei monti. Il loro progetto era di visitar alcuni vecchi pensionati di Sant'Aubert. Una rendita modica gli permetteva simile aggravio, mentr'è probabile che Quesnel con tutti i suoi tesori non avrebbe potuto sopportarlo.
Sant'Aubert distribuì i soliti benefizi ai suoi umili amici; ascoltò gli uni, consolò gli altri; li contentò tutti co' dolci sguardi della simpatia ed il sorriso dell'affabilità, e traversando con Emilia i sentieri ombrosi della selva, tornò seco lei al castello.
La moglie era già ritirata nelle sue stanze; il languore e l'abbattimento che l'avevano oppressa, e che l'arrivo dei forestieri aveva sospeso, la colsero di nuovo, ma con sintomi più allarmanti. L'indomani si manifestò la febbre; il medico vi riconobbe il medesimo carattere di quella ond'era guarito Sant'Aubert; essa ne aveva ricevuto il contagio assistendo il marito: la sua complessione troppo debole non aveva potuto resistere: il male, insinuatosi nel sangue, l'aveva piombata nel languore. Sant'Aubert, spinto dalla inquietudine, trattenne il medico in casa; si rammentò i sentimenti e le riflessioni che avevano turbate le sue idee l'ultima volta ch'erano stati insieme alla peschiera; credè al presentimento, e temè tutto per la malata: riuscì non ostante a nascondere il suo turbamento, e rianimò la figlia, aumentandone le speranze. Il medico, interrogato da lui, rispose che, prima di pronunciarsi, dovea aspettare una certezza, non ancora da lui acquistata. L'inferma sembrava averne una meno dubbiosa, ma i suoi occhi soltanto potevano indicarla; essa li fissava spesso su' suoi con un'espressione mista di pietà e di tenerezza, come se avesse antiveduto il loro cordoglio, e sembrava non istare attaccata alla vita se non per cagione di essi e del loro dolore. Il settimo giorno fu quello della crisi; il medico prese un accento più grave; ella se ne accorse, e profittando di un momento ch'erano soli, l'accertò esser ella persuasissima della sua morte imminente. « Non cercate d'ingannarmi, » gli disse; « io sento che ho poco di vivere, e da qualche tempo son preparata a morire; ma poichè così è, una falsa compassione non v'induca a lusingare la mia famiglia; se lo faceste, la loro afflizione sarebbe troppo violenta all'epoca della mia morte; io mi sforzerò, coll'esempio, d'insegnar loro la rassegnazione ai voleri supremi. »
Il medico s'intenerì, promise di obbedire, e disse un po' ruvidamente a Sant'Aubert che non bisognava sperare. La filosofia di questo sventurato non era tale da resistere alla prova di un colpo tanto fatale; ma riflettendo che un aumento di afflizione, nell'eccesso del suo dolore, avrebbe potuto aggravare maggiormente la consorte, prese forza bastante per moderarla alla di lei presenza. Emilia cadde svenuta, ma appena riprese l'uso dei sensi, ingannata dalla vivacità dei suoi desiderii, conservò fino all'ultimo momento la speranza della guarigione della madre.
La malattia faceva rapidi progressi; la rassegnazione e la calma dell'inferma sembravano crescere con essa la tranquillità con cui attendeva la morte, nasceva da una coscienza pura, da una vita senza rimorsi, e per quanto poteva comportarlo l'umana fragilità, passata costantemente nella presenza di Dio e nella speme d'un mondo migliore; ma la pietà non poteva annientare il dolore che provava, lasciando amici tanto cari al suo cuore. Negli estremi momenti, parlò molto col marito e con Emilia sulla vita futura ed altri soggetti religiosi; la di lei rassegnazione, la ferma speranza di ritrovare nell'eternità i cari oggetti che abbandonava in questo mondo; lo sforzo che faceva per nascondere il dolore cagionatole dalla momentanea separazione, tutto contribuì ad affliggere siffattamente Sant'Aubert, che fu costretto ad uscire dalla camera. Pianse amare lagrime, ma in fine fece forza a sè stesso, e rientrò con una ritenutezza che non poteva se non accrescere il suo supplizio.
In alcun tempo Emilia non aveva meglio conosciuto quanto fosse prudente di moderare la sua sensibilità, nè mai erasene occupata con tanto coraggio; ma dopo il momento terribile e funesto dovè cedere al peso del dolore, e comprese come la speranza al par della forza avessero concorso a sostenerla. Sant'Aubert era troppo afflitto egli stesso per poter consolare la figlia.
CAPITOLO II
La spoglia mortale della Sant'Aubert fu inumata nella chiesa del villaggio vicino; sposo e figlia accompagnarono il corteggio funebre, e furono seguiti da un numero prodigioso di abitanti, che piangevano tutti sinceramente la perdita dell'ottima donna.
Ritornati dalla chiesa, Sant'Aubert si chiuse nella sua camera, e ne