Barrili Anton Giulio

La notte del Commendatore


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nel babbo; ed ora il libro lo salvava, ora no, da una ramanzina coi fiocchi.

      Gli voleva un gran bene, suo padre; ma era un bene di sostanza, non d'apparenza, e la prima pelle appariva un po' ruvida. A tavola, i principii erano sempre questi: Hai studiato quest'oggi?—Sì, babbo.—Che cosa?—Gli elementi di geometria.—Bene domattina mi copierai cinque teoremi, e me ne darai anche la spiegazione. Vo' vedere i progressi che fai.—

      Non faccia meraviglia la cosa, perchè il signor Amedeo sapeva tutto, anche di matematiche. Uomo di pronto ingegno e di vasta coltura, argomento nella sua prima gioventù di alte speranze ai Doglianesi della vecchia generazione, il signor Amedeo si era poi affondato nei pantani della vita di provincia. Perchè? Anzitutto per ragioni domestiche; inoltre, e più ancora, per affezioni, che lo avevano condotto a formare una nuova famiglia all'ombra della vecchia. E prima per amore, e da ultimo per consuetudine, aveva ristretto il suo orizzonte per modo, che gli bastava di attendere ai suoi poderi, perchè dessero un anno per l'altro le loro diecimila lire di reddito, egli che avrebbe potuto guadagnare cinque volte tanto in una gran città, a far l'avvocato od il medico. A volte ci pensava, anzi se ne rodeva un pochino; e che fosse proprio così, lo provava il fatto del leggere continuo che faceva. Di solito, la vita di provincia abbatte, rappicciolisce lo spirito; non si studia, non si legge più, salvo il giornale, tanto per fare un po' di polemica stracca alla bottega da caffè. Ma il signor Amedeo più che una vita di provinciale, faceva una vita di campagnuolo, e studiava alle sue ore e si teneva al fatto delle cose del mondo. Perciò i rimorsi del non aver seguito la sua stella; e poichè gli era nato e venuto su l'erede, si riprometteva di emendare in lui la sua colpa, di sviarlo dalle secche su cui egli aveva incagliato.

      –Quel che non ho potuto far io,—diceva il signor Amedeo,—farà lui; ingegno ne ha; non lascierò che si smarrisca per via.—

      Le scuole erano buone a Dogliani. E non era un miracolo, perchè questa è soventi volte l'unica fortuna dei piccoli centri in Italia, e da loro per questo rispetto, un gran vantaggio sui grandi. Ma il signor Amedeo non se ne contentava; il primo, il vero maestro di suo figlio, era lui. Tornato indietro coll'ingegno fino ai primi elementi dello studio, d'anno in anno si alzava con lui, cavando tesori di sapere dai fondi della memoria, che ne erano forniti, come d'anfore e vasi i fondi della casa di Arrio Diomede a Pompei.

      Nicolino sentiva di essere amato grandemente dal babbo. Ma qualche volta il suo spirito irrequieto si ribellava a quell'amore violento, che gli sapeva di tirannico.

      –Mio padre—pensava egli—mi crede una cima; e non è vero, ecco, io non sono che un ciuco. Ho fatto male a strappare l'anno scorso il primo premio. Ora, li ho a pigliare tutti. Che noia!—

      Tra i molti spedienti immaginati da suo padre per fargli mettere amore allo studio, c'era questo, che merita d'essere raccontato. Un giorno il ragazzo era entrato nella camera paterna. Il signor Amedeo, che stava riponendo alcuni volumi sugli scaffali di una piccola libreria, gli aveva parlato così:

      –Vedi, figliuol mio: quando avrai venticinque anni potrai leggere anche tu questi libri. Adesso no; sei troppo giovine, e son libri che fanno girare il capo ai ragazzi.—

      Tanto bastò perchè a lui gli girasse subito. Ad ogni ora ronzava nei pressi della camera: ora con un pretesto, or con un altro, c'entrava, sbirciando il frutto proibito attraverso la custodia del reticolato di filo di ottone. Ed oh meraviglia! Due giorni dopo quella tentazione, suo padre aveva dimenticato la chiave nella serratura degli sportelli.

      Indovinate già quel che avvenne. Il signor Nicolino die un giro di chiave ed aprì. Ma poi, rimase lì perplesso tra il sì e il no, come quel personaggio dell'Ariosto.

      Faccio o nol faccio? Alfin mi par che buono Sempre cercar quel che diletti sia.

      S'intende che il ragazzo non pensò la cosa in versi, chè non aveva ancor letto l'Orlando furioso; ma la pensò in prosa, che torna lo stesso. E finì imitando il personaggio ariostesco; stese la mano e aggranfiò un volume, anzi due, anzi tre, avendo cura di pescare in tre scaffali diversi, e di allargare le file per modo, che la sua marachella non avesse a dare nell'occhio. Poi, come il micio che ha rubato un pesce, o una costoletta in cucina, e sa d'aver fatto una mala cosa, andò a rimpiattarsi in uno stambugio, dove di tre nascose due, portando uno in saccoccia, per leggere a suo bell'agio nelle ore più libere.

      In questa guisa lesse, divorò tutti i libri che non avrebbe dovuto leggere prima di venticinque anni. Ne aveva dieci; ne guadagnava quindici. Si capisce, senza che io pure lo dica, che il signor Amedeo era diventato d'una smemorataggine senza pari, e dei due giorni l'uno lasciava la chiave nella toppa.

      Non vorrei che i lettori mi pigliassero il signor Amedeo per un babbo imprudente. Quei libri proibiti erano l'Iliade e l'Odissea, i sepolcri di Ugo Foscolo e del Pindemonte, la Divina Commedia, la Gerusalemme liberata la Basvilliana, le tragedie d'Alfieri, ed altri di quella fatta. La storia poi abbondava; ed era tutta roba scelta e vagliata, non già dall'Indice, ma dal buon senso, quel caposcuola che tutti sappiamo. Il ragazzo non poteva avvedersene, ancora digiuno com'era; ma il fatto sta che diede nella pania come un lucherino, e a furia di leggere, molte volte senza capire, ma tratto al lecco della novità, si ritrovò ad essere sulla via degli studi molto più innanzi dei compagni e della classe che faceva. E già il nostro Nicolino tirava giù endecasillabi e ottonarii ad orecchio, mentre i suoi compagni imbastivano a stento la solita morte di Abele.

      Ve la ricordate, o lettori, la morte di Abele? «Allora «lo snaturato fratello cavò di tasca una pistola…». Oppure: «Abele abborriva dall'uso delle armi e non «portava nemmeno un temperino per le penne…». Oppure… Ma a qual pro' dirle tutte? Chi più ne ha più ne metta.

      Ora, tornando al fatto nostro, quel babbo che seguitava a non avvedersi dei continui trapassi dei suoi volumi dalla libreria allo stambugio, e dallo stambugio alla libreria, ci aveva gli occhi d'Argo per tutto ciò che il suo figliuolo scriveva. Ogni giorno gli era sopra; ogni giorno dava un'occhiata ai quaderni.

      –Vediamo un po; che cosa hai fatto quest'oggi?

      –Ecco, babbo;—diceva il ragazzo, mostrando tutto vergognoso l'opera sua.

      Il babbo leggeva, leggeva tutto, senza perdonarla ad una virgola, storceva le labbra, crollava il capo e faceva la copiaccia in due pezzi.

      –Non va bene; fàllo da capo.

      E Nicolino tornava a scrivere; indi, altra lettura e soventi volte altra lacerazione del manoscritto.

      –Ma dimmi, babbo, dov'è lo sbaglio?

      –Da capo a fondo; non c'è niente di buono. Qualunque cosa tu abbia a fare, il primo punto è di pensarci su molto. Pensaci, torna a scrivere, e ti avverrà di fare meglio.—

      In questa maniera, e senza pietose correzioni di penna, che sarebbero tornate a danno degli altri condiscepoli, era avvenuto al ragazzo ciò che egli nella sua testolina decenne pronosticava di sè. Aveva dovuto strappare ad uno ad uno tutti i primi premii, dalla grammatica inferiore alla seconda retorica.

      Segno che non era un ciuco, il signor Nicolino, come egli si era battezzato da sè in un momento di stizza. Tutt'altro, anzi; ma il suo spirito vagabondo amava troppe più cose che non comportasse l'età. L'applicazione, forse, perchè comandata, lo uggiva; e troppo spesso egli stava come origliando dentro di sè, per sentire quelle voci interne che sogliono cantare più tardi nei chiusi recessi dell'anima. Ingegno precoce, egli non era più, non era mai, nel suo guscio. A dieci anni innamorato come Dante, aveva scombiccherato il suo sonetto a rime fallate, in lode di madonna, che era una fanciulla di nove. A quattordici anni lamentava già il triste vuoto della sua vita, ed aveva trovato che tutto nel mondo era fumo. È vero che, a rincalzo della sua tesi, fumava già come un turco.

      Impetuoso per indole, o faceva, o tentava, o si struggeva d'ogni cosa che gli girasse nella fantasia. Era anche un tal poco manesco e prepotente, salvo colle bestie che aveva preso ad amare. Ed ecco in che modo. Una mattina, andando attorno con un suo compagno di scuola (ahimè, quel giorno la scuola e' l'avevano salata ambedue), si era arrampicato su d'un leccio, per pigliar un nido di passerotti. La madre, che era andata in busca di cibo, non tardò molto a giungere, e, scambio di strillare, come usano gli altri uccellini, si avventò al fanciullo, e lì, stando sull'ale, lo bezzicò animosa più volte sul capo.

      L'atto