Barrili Anton Giulio

La notte del Commendatore


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i compagni, si era degnato di avvicinarsi a loro e di rallegrarli colla sua conversazione, per far sapere a tutti che tornava allora allora di Francia.

      –E Lei, dove è stato?—domandava il signor conte, volgendo la parola al nostro Ariberti.

      –A Dogliani;—rispondeva questi, avvilito.

      –Dogliani! Dov'è?—chiedeva il conte, coll'aria di chi non si raccapezza.—Dalle parti di Mondovì?

      –Sì, verso le inospiti Langhe;—soggiungeva un altro della brigata.

      –E via, non disprezziamo tanto i nostri paesi;—interruppe il Ferrero.—Ci sono certe ragazze avvistatette, che non fo per dire… Il nostro Ariberti ha da aver fatto strage.

      Il conte, strascicando l'erre con quel suo garbo nobilesco:—Quando si va in campagna, non c'è altro modo di vivere, che devastando il pollaio. Ma Parigi…. Parigi….. ecco la vita! Il palazzo Reale! il Rocher de Cancale! la Chaussée d'Antin colle sue donne adorabili! Parlez-moi de ça!

      E con una leggiadra giravolta sui tacchi, il signor conte Candioli andò verso il banco, per farsi ammirare dalla padrona, pallida creatura, che aveva letto Ossian e si credeva una specie di Malvina, perchè aveva i capegli di canapa mal pettinata.

      –Vedi che sciocco!—disse il Ferrero sottovoce all'Ariberti.—Perchè è stato a Parigi, insieme coi bauli del suo signor padre…

      –Eh via, non sei tu forse stato a Firenze?

      –In Italia, perdinci, e co' miei danari.

      –Vorrai dire di tuo padre.

      –S'intende; ma sono andato per mio diporto. Ma perchè non far lo stesso anche tu, scambio di chiuderti in quel tuo guscio di noce? Tuo padre non è ricco abbastanza per farti pigliare un po' d'aria di casa d'altri?

      –Che vuoi? Gli sembro troppo giovane, per girare il mondo da solo. Poi, c'era l'esame di ammissione… Infine che ti dirò? Voi fortunati, che avete potuto passare il confine! Noi ce ne siamo rimasti all'ombra nelle nostre montagne, coi nostri cenci campagnuoli dattorno. Non è egli vero, Balestra?—

      L'amico chiamato con questo nome rispose con un malinconico cenno del capo, che voleva dire: purtroppo.

      –Benissimo; bisogna far strage!—ripigliò.

      –Oh, a proposito di cenci,—ripigliò il Ferrero,—che cosa è avvenuto del tuo Bertone?

      –Mio!—esclamò l'Ariberti.—Mio come tuo. Tu sai ch'egli è di Mondovì ed io per tutte le vacanze non mi sono mosso da casa. Del resto, che vuoi che abbia fatto? Sarà venuto anche lui.

      –Si diceva,—notò il Balestra,—che non avrebbe più continuato gli studi, perchè la famiglia non poteva mantenerlo a Torino.

      –Sfido io!—entrò a dire un altro della brigata.—Suo padre fa il maniscalco e una sua sorella va a mezzo servizio nelle case dei signori.

      –Del resto,—aggiunse il Ferrero,—a Torino è venuto certamente. Almeno, io lo credo, perchè stamane, quando sono uscito di casa, i cenciaiuoli del ghetto gridavano più allegramente che mai il loro «niente da vendere?»

      –Ah, ah! bella, questa!—proruppero in coro gli studenti.—Abbiamo dunque la prova provata.

      –Via, non c'è umanità!—disse l'Ariberti, con aria che voleva parer rimprovero, ma che sapeva piuttosto di preghiera.—Che ci può far egli, se è povero?

      –Sì, sì, hai ragione;—rispose ghignando il Ferrero;—ma che ci possiamo far noi, se è così sudicio? Spero almeno che quest'anno tu non ce lo vorrai tirare fra' piedi. Con quel coso lì in compagnia, si passerebbe tutti per altrettanti straccioni.—

      L'Ariberti non ebbe animo di protestare contro questa nuova maniera d'ostracismo. E non era mica un giovine di cattivo cuore; anzi, bisogna dire che gli rincrescevan assai le parole del Ferrero. Ma in fondo in fondo, o come sarebbe egli stato possibile di sostener l'onore del giubbone color tabacco dell'amico Bertone? Segnatamente là, al caffè davanti al conte Candioli, a quel figurino di Parigi, vestito nientemeno che da Humann, cioè dal primo sartore di tutti i leoni di Lutezia, con giubba, o senza? Perciò l'Ariberti si tenne le sue ragioni in gola e il povero Bertone fu condannato senza forma di processo.

      –E che faremo ora?—continuò il Ferrero.—L'anno scorso c'erano certe idee! Ma sì, ad anno così inoltrato, non bisognava pensarci. Ti ricordi, Ariberti, del nostro giornale letterario? Tu avevi già pensato alle module pei registri degli associati.

      –Ah sì, sarebbe bene di mandarlo avanti;—disse il Balestra.—Io ci ho una canzone in pronto.

      –Ed io,—soggiunse il Vigna, che era un altro della compagnia,—ci ho un capitolo sugli amori di Tibullo.

      –Già tu l'hai sempre coi latini. Io ci ho invece uno studio sui Nibelunghi.

      –Che cosa sono? Roba da mangiare?

      –Tira via, sciocco, e impara l'arte nuova; ne abbiamo piene le tasche dei classici.

      –Amici,—interruppe il Ferrero,—noi ci stiamo bisticciando per la pelle dell'orso. Prima di tutto, vediamo se il giornale uscirà. Avremo noi il permesso del governo?

      –Perchè no?—disse l'Ariberti, mandando una timida occhiata al ricapito del figurino di Parigi;—se il signor conte si degna di spendere una parolina per noi con Sua Eccellenza, voglio sperare….—

      Il signor conte, che andava farfalleggiando continuamente dal banco di Malvina al tavolino degli amici, gonfiò a quelle parole lusinghiere.

      –Il signor conte—aggiunse il Ferrero,—potrebbe anche essere uno dei primi scrittori del giornale, ed anzi il più gradito alla miglior classe di lettori, che è senza dubbio quella delle lettrici.

      –Io?—dimandò il contino, che non ci arrivava da sè.—E che cosa potrei scrivere io, palsambleu?

      –Eh, per esempio, i ricordi del suo viaggio a Parigi. Mi sembra che l'argomento sia ghiotto; che ne dite voi altri? Ella ha certamente molto veduto e molto osservato;—soggiunse il Ferrero, dandogli accortamente la soia;—ricevimenti di corte, passatempi di strada, segreti di boudoir, occhiate tra le quinte del palcoscenico, chiacchiere di foyer, insomma, tutto ciò che forma la vita di quella capitale affascinante; ecco quello che potrebbe descrivere. Non c'è che lei, per farlo; e sarebbe la man di Dio pel nuovo giornale.—

      Questa volta il pavone fece a dirittura la ruota.

      –Sicuramente—rispose egli, mettendosi sul grave.—E sebbene io non abbia troppa domestichezza colla lingua…. Del resto, sentano, signori miei; bisogna confessarlo una volta; la lingua italiana è povera, assai povera.

      –Che diavolo dice?—esclamò il classico Vigna. Con un vocabolario di —ottantaseimila parole!

      –Sta zitto!—interruppe il Ferrero, che voleva ingrazionirsi col figlio del ministro.—Il signor Conte ha ragione, e tu gli scambi la tesi. Sicuro, c'è molta roba nel vocabolario; ma a che serve, se è lingua morta e ciarpame?

      –Infatti, è proprio questo che volevo dir io;—ripigliò il signor Conte, inchinandosi.—Ed ecco un esempio che fa al caso nostro. Come tradurrebbero lor signori la parola francese regret?—

      La domanda era vecchia, e certo il signor Conte l'aveva raccattata in qualche conversazione di gente sconclusionata, che non sa la sua lingua, e, quel che è peggio, non vuol confessarlo. Anche Ariberti, come il classico Vigna, si sentiva a rispondergli che c'erano in italiano almeno dieci vocaboli per esprimere tutte le gradazioni d'un sentimento, anzi meglio, i vari sentimenti che i francesi sono costretti ad esprimere con quel vocabolo solo; la qual cosa, a dir vero, non fa testimonianza di molta ricchezza nel tesoro filologico dei nostri vicini d'oltralpe. Voleva anco soggiungere, allargando la questione, che ogni lingua ha i suoi propri modi e partiti per dire il fatto suo, e che il non poter voltare col medesimo giro una frase forastiera non prova nulla a suo danno. Infine, voleva dargli pulitamente di sciocco; voleva…. Ma a qual pro? Anch'egli aveva capito che non bisognava urtare con quella ignoranza pomposa; e fu egli il primo a rispondere, con una mimica espressiva, al signor conte,