Bullfat: Ci può scommettere. Ho sospettato sin dall’inizio che Hawkins avesse mandato su delle ragazze, ma gli Spaziali non agiscono mai senza una prova certa. Quindi mi ero tenuto i sospetti per me e avevo raccolto meticolosamente le prove, in attesa del momento opportuno per mostrare le mie scoperte al Presidente.
Sen. McDermott: In altre parole, la sua scoperta era basata su un’indagine lunga e meticolosa?
Gen. Bullfat: Esatto Senatore. E’ così che fanno le cose i Militari.
***
Come Fortuna volle, quando arrivò la comunicazione sia Hawkins che Starling erano fuori per il pranzo. Era classificata come “urgente,” quindi l’addetto alla sala telecomunicazioni la fece inoltrare direttamente all’ufficio di Hawkins. La porta era chiusa a chiave.
Il Generale Bullfat, che proprio allora usciva dal suo ufficio e si incamminava per il corridoio, trovò il fattorino che aspettava il ritorno di Hawkins fuori dalla sua porta. Con la sua tipica capacità di persuasione —e duecentocinquanta libbre che indossano cinque stellette possono essere molto persuasive – Bullfat convinse il fattorino che una comunicazione urgente non poteva attendere “i capricci di un dannato imbroglione come Hawkins.”
Bullfat si portò il messaggio in ufficio e lo aprì. Decodificò con facilità la noticina di cinque parole e poi restò a fissarla per un minuto con gli occhi di fuori. “Parks,” scattò contro il segretario sul telefono interno - “passami il Presidente. No, pensandoci bene, non ti disturbare – vado a trovarlo di persona.”
Usciva dall’ufficio proprio mentre Hawkins e il suo assistente tornavano dal pranzo. Il Generale non sapeva se ridere trionfante in faccia a Hawkins oppure fargli la predica, quindi si limitò a dire: “Adesso ti ho acciuffato, Hawkins. Finalmente ti ho acciuffato.”
Hawkins e Starling si scambiarono occhiate perplesse e preoccupate. Entrarono nell’ufficio del Generale: Hawkins trovò il messaggio sulla scrivania, lo lesse silenziosamente tra sé, ricadde pesantemente a sedere. Vagava con gli occhi assenti sul muro di fronte: le mani inerti lasciarono andare il messaggio, Starling lo raccolse e lo lesse a voce alta, incredulo.
“Sydney incinta. E ora? Briston.”
***
Sen. McDermott: Signore e Signori. Appena ieri ho avuto ancora occasione di comunicare con il Presidente e siamo giunti alla conclusione che compiere ulteriori indagini al riguardo ormai sia davvero sterile. Quindi, desidero aggiornare quest’udienza fino a ulteriore avviso, senza mettere agli atti la trascrizione ufficiale fino a quel momento, quando sarà ritenuto opportuno renderla di dominio pubblico. E questo è tutto.
***
Filmore riuscì a vedersi con Hawkins fuori dall’edificio. “Riesco a vedere una tua manovra in tutto questo Jess. Come l’hai cavata, questa patata bollente?”
“Beh,” spiegò Hawkins, “dato che ancora la cosa non è di dominio pubblico, ho semplicemente fatto capire al Presidente che…. se non può liberarsi di noi, potrebbe abituarsi a noi.”
“E perché non si può liberare di noi?”
“Perché il Direttore dell’Agenzia Spaziale Nazionale è nominato per sei anni, e me ne rimangono ancora quattro. E poi, soltanto il Congresso ha l’autorità per esonerarmi.”
“Ma le ragazze? Non le possono licenziare?”
“Santo Cielo no! Sono impiegati civili dell’Agenzia e rientrano nello status di “servizio obiezione” potrebbero essere rimosse dall’incarico soltanto per incompetenza nell’esecuzione di compiti specifici. E nessuno…” Hawkins sorrise… “nessuno potrebbe mai accusarle di una cosa del genere.”
Bel Posto da Vedere
Questo è apparso per la prima volta in Vertex nell’ottobre 1973.
Guardando indietro mi pare di subire un po’ il fascino di quelle vecchie città desolate che si vedono nei sogni—ma a che prezzo! Una città del genere compare nel mio romanzo SCAVENGER HUNT, e ha il suo coronamento in A WORLD CALLED SOLITUDE. Questo però è il primo testo in cui appare. Mi chiedo cosa pensano gli studiosi di ciò che tento di dire.
Il confine della città era esattamente a mezzo metro dalla punta dei suoi stivali. Ryan, in piedi, non aveva particolarmente fretta di attraversare quella demarcazione. Cinquanta centimetri: era tutto ciò che separava lui e la sua potenziale pazzia. Fissò la città cercando di capirne qualcosa da quel profilo imperscrutabile – cercando, ma senza riuscire.
Infine trasse di tasca il comunicatore. La fredda scatola metallica rettangolare si adattava stranamente bene alla sua mano. Nell’alienità di quel pianeta era il simbolo della Terra. E finché la teneva in mano, in un certo qual modo la nave – e persino la Terra stessa – non erano poi tanto distanti. Ryan non era un uomo particolarmente coraggioso; nonostante le dichiarazioni della propaganda, gli esploratori planetari tendevano a sperimentare fallimenti e paure assolutamente terrestri. Ryan aveva paura della solitudine.
Parlò con toni calmi e pacati. La sua voce non era diretta ad altri esseri viventi a bordo della nave, ma al computer modello JVA che la gestiva. Il consorzio umano era in esubero, troppo diversificato e complesso perché la mente potesse afferrarlo… c’era bisogno di un aiuto meccanico. Per la razza umana i computer erano diventati padri, madri, insegnanti. Il Java-10 era la controparte portatile dell’enorme cervello che controllava la Terra.
“Sto per entrare in città,” disse Ryan.
“Inutile sottolineare che è importante andar cauti,” rispose Java-10. “Qui abbiamo già perduto cinque spedizioni. Cerca di mantenerti in comunicazione frequente, se non costante. E ricordati che se fallisci non faremo altri tentativi. La città sarà distrutta, nonostante il suo valore potenziale.”
“Capito,” rispose asciutto Ryan. “Vado e torno.” Disattivò il comunicatore e lo ripose in tasca.
Era fermo prima della demarcazione, esitante. Proprio alla sua destra, la navetta d’esplorazione si ergeva tozza accanto alle altre cinque, essenziale, pronta a partire all’istante in caso di necessità. Percepiva dietro di sé il deserto: asciutto, mortale, con le dune polverose che mutavano forma non appena una brezza passeggera le sfiorava. Davanti a lui lo attendeva quella città dal profilo aguzzo, bella, profondamente aliena. Pareti brillanti creavano sporgenze in angolazioni folli, come prodotte dal delirio di un architetto ubriaco. Lateralmente, una dopo l’altra, spuntavano strutture fragili, quasi fiabesche, che si ergevano anche per centinaia di metri. Altri edifici ancor più sorprendenti sembravano proprio appesi in aria, senza alcun sostegno visibile. Di tanto in tanto il vento sfiorava la città e faceva vibrare l’intera struttura come un cristallo sonoro; allora la metropoli sembrava sospirare il canto di una sirena.
Già cinque volte altri uomini erano entrati in città, l’unica, su un pianeta altrimenti desolato. Nessuno ne era mai tornato. I rilevatori non avevano mostrato alcuna traccia di vita antecedente all’arrivo dell’uomo: registravano sedici forme di vita – i sedici uomini svaniti. Ora toccava a Ryan, era la possibilità di far salire la quota a diciassette.
Non avevano idea di chi avesse costruito quella città, quando, o perché. Sapevano soltanto che si era ingoiata sedici persone, ancora vive, eppure apparentemente incapaci di sfuggire, nonostante disponessero delle migliori armi che la Terra potesse fornire. La città generava un campo di energia sconosciuta che si irradiava in forma sferica dal centro verso l’esterno per una certa distanza e mai oltre. Per un po’ alcuni degli uomini che erano entrati in quel campo di energia avevano mantenuto il contatto radio con la navetta: ma le informazioni inviate dagli esploratori erano state quasi inutili perché presto gli uomini avevano iniziato a scivolare in un crescente stato di delirio, per perdere poi completamente contatto con la realtà e interrompere le comunicazioni.
La curiosità della Terra, la necessità di tecnologia che invece