Guido Pagliarino

Universi Mondi


Скачать книгу

chiesto e ottenuto il supporto logistico d’un legale di cui si fidava, suo ex allievo e amico, l’avvocato Lamberto N., di ventidue anni più giovane: una volta che Osvaldo fosse stato ospite della clinica, questi vi sarebbe passato a trovarlo periodicamente per controllare che fosse rispettato da tutti come persona e ben trattato per vitto, alloggio, pulizia personale e, soprattutto, che venisse sempre diligentemente seguito medicalmente; inoltre l’amico avrebbe saldato per lui le rette mensili ed eventuali conti extra: Osvaldo era sicuro che il reddito del proprio ingente patrimonio sarebbe stato più che bastante a coprire le spese anche se, per ipotesi, la sua vita fosse stata lunga, a parte che, essendo pur afflitto da tempo da problemi cardiaci, riteneva che tanto lunga, dopotutto, non sarebbe stata. A compenso dell’opera di Lamberto, con testamento notarile Osvaldo l’avrebbe lasciato suo erede universale e gli avrebbe ceduto sùbito, come onorario à forfait anticipato, il proprio grande alloggio di città con quanto comprendeva. I due uomini avevano appuntamento dal notaio Tommaso Q. alle 11 del posdomani.

      Su tali malinconici pensieri, poco prima dell’ora di pranzo Osvaldo passò, per una porta interna, dal proprio appartamento alla sala d’attesa del suo studio professionale: sotto i precedenti possessori s’era trattato d’un solo, grande alloggio occupante tutto il secondo piano, con due ingressi dalle scale, l’uno per proprietari e ospiti, l’altro per fornitori; il secondo era divenuto l’accesso allo studio legale. La zona lavoro era composta da tre stanze, il salone-studio vero e proprio, l’anticamera-sala d’attesa e l’ufficio delle due impiegate. Non c’era dentro nessuno, sebbene fosse giorno lavorativo, poiché Osvaldo aveva liquidato le collaboratrici, come aveva fatto d’altronde con la propria governante-cuoca, prendendo i pasti nei giorni seguenti in un vicino ristorante. Entrò nel salone che costituiva il suo studio, colmo di riviste giuridiche, dossier di lavoro e saggi legali tra i quali spiccavano i suoi, rilegati in pelle rossa; erano infilati rispettivamente, da sinistra a destra entrando, in tre scaffalature in legno noce chiaro ricoprenti altrettante pareti; lungo la quarta, cui era centrale la porta fra studio e sala d’attesa, erano appese, quattro per parte, otto stampe sovrastanti gli schienali di altrettante seggiole imbottite; al centro del salone, di rimpetto alla porta, imperava un ampio tavolo uso scrittoio coperto di fascicoli e carte, dietro cui s’ergeva un seggiolone professionale; tutta la mobilia era dorata e antica, in stile Luigi XV. L’avvocato aveva intenzione di sedersi per l’ultima volta alla propria scrivania, guardarsi un poco attorno, mollemente, e dare così una sorta d’addio ufficiale alla sua vita professionale, per non pensarci oltre e mai più accedere all’area di lavoro negli ultimi, mesti giorni che avrebbe trascorsi in casa.

      Aveva fatto un paio di passi nel salone quando avvertì, allarmandosene, un intorpidimento alle mani e ai piedi che, presto, invase il corpo. S’arrestò rimanendo fisso sul posto. La scarsa sensibilità corporea divenne molesto formicolio e poi quasi un bruciore. Gli formicolava anche il cuoio capelluto. Iniziarono a prudergli, dentro, il cerebro e il muscolo cardiaco. Ragionò allibito: Sto per rimbambirmi del tutto e mi sta pure venendo un infarto. Pochi secondi dopo tuttavia, il bruciante formicolio prese a diminuire e, quanto prima, scemò ovunque; ma altra pena lo colpì e più gravemente: una sorta di gran manaccia invisibile gli strinse forte il cervello mentre sentì il cuore riscaldarsi fin al bruciore: “Muoio!” sbraitò.

      â€œNon muore affatto, avvocato!” esclamò una voce sconosciuta lasciandolo esterrefatto, una voce dal tono melodioso, simile al timbro muliebre d’un potente contralto.

      â€œChi diav…!” non si contenne lui nonostante il tono tranquillo della voce, e si voltò di scatto per scoprire una presenza alle spalle: nessuno.

      â€œAbbia un attimo di pazienza, il dolore sta per finire”, seguitò la voce.

      La sofferenza smise ed egli si sentì fisicamente bene, anzi molto bene; però sul momento non si soffermò su questo, si guardò affannato attorno e lanciò anche un’occhiata al di sotto del tavolo: nessuno. Chi aveva parlato doveva essere al di là della porta. Un ladro? Osvaldo non provava più sbigottimento, adesso, ma ira: afferrò dal piano della scrivania un piccolo ma ponderoso fermacarte in bronzo, statuetta secentesca raffigurante un cavallo e cavaliere, con base anche più pesante della figura, e uscì d’impeto nella sala d’attesa: nessuno. Entrò nella camera che fino a giorni prima aveva osservato al lavoro le sue impiegate: nessuno. Tornò sui propri passi, ripassò per la sala d’aspetto e s’infilò nel primo vano della propria abitazione, un disimpegno: nessuno anche qui. Non andò oltre, ché la voce non era sonata lontana dallo studio. Meccanicamente posò il pesante fermacarte sopra un tavolino al suo fianco, un po’ troppo energicamente contro una statuetta di Capodimonte, damina e cavaliere settecenteschi, che ne restò scalfita alla base. Nemmeno s’accorse del danno e rientrò nella sala d’attesa, strepitando: “Il mio cervello è fuso! Sento voci che non ci sono!” e continuando a ragionare a mente: Il medico non m’aveva detto di possibili allucinazioni schizofreniche.

      La voce da contralto risuonò un'altra volta, quieta come prima: “Il suo cervello non è fuso, avvocato, lei non sta immaginando”: queste parole, ripercosse da soffitto e muri, si riverberarono nella stanza ch’era priva d’arredi a parte otto sedie per i clienti lungo due pareti e un attaccapanni e un portaombrelli presso la porta sul pianerottolo, e al padron di casa quelle parole sembrarono d’oltretomba. Soffrì un sobbalzo al cuore e i battiti dell’organo accelerarono.

      La voce estranea continuò placidamente: “Lei mi sente davvero, avvocato, attraverso un dispositivo, chiamiamolo telefonino, va bene? posizionato sul viva voce, che è in quest’ambiente, sulla sedia più vicina alla porta del suo studio; e la prima volta appunto nello studio l’apparecchio s’era solidificato, precisamente sulla sua scrivania, lei però non l’aveva scorto perché era apparso fra carte; così, un momento fa l’ho ritrasferito qui nella sala d’aspetto e ora, avvocato, non può non vederlo: oltretutto, stavolta l’ho ricomposto in tinta rossoviva e non più bianca.”

      Solidificato Apparso? Ritrasferito? Ricomposto? si meravigliò Osvaldo. Vide che una sorta di telefonino c’era davvero su quella seggiola. Gli s’approssimò. Non lo toccò, solo l’osservò. Notò non trattarsi d’un moderno apparecchio intelligente multimediale ma d’un modello di dimensioni minori di quelle d’uno smartphone e d’apparenza arcaica, di quelli utili solo a conversare e a scambiare messaggini. Si fece più vicino e vide che non figurava alcuna scritta sul cellulare e ch’esso non aveva tasti né schermo, come se l’apparecchio fosse stato creato solo per ricevere.

      Si disse ad alta voce: “Non credo alla magia e non hanno ancor inventato il teletrasporto, dunque sono davvero divenuto schizofrenico e ‘sto telefonino è solo nella mia testa.”

      â€œSi sbaglia, sa?” incalzò la voce eufonica provenendo chiaramente dall’apparecchietto.

      Osvaldo rispose come se quelle parole fossero state reali, senza però crederlo davvero: “Dunque è stato inventato il teletrasporto, non è così?”

      â€œSì, da un pezzo.”

      â€œAh, ecco, signor… o signora…”

      â€œIo sono maschio e mi chiamo Ornulatinval Tamagonemistralin Rutillinainon, ma per lei, avvocato, solo Or come mi si rivolgono gli amici: possiamo darci del tu?”

      Osvaldo stette al gioco che, secondo lui, il malandato suo cervello gli presentava: “Sì, grazie, e io sono Osvaldo.”

      â€œCaro Osvaldo, è un onore chiamare per nome un’autorità mondiale del diritto come te; ma se permetti, ora verrei al dunque, anzi prima verrei a quel dunque che certamente t’interessa di più, poi al dunque che interessa noi.”

      â€œAh, ecco; e voi sareste…?”

      â€œAspetta, per favore. Intanto, la cosa