Guido Pagliarino

L’ira Dei Vilipesi


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non perdere tempo nel riaprirla uscendo: te la saresti tirata dietro non appena fuori e tanti saluti, chi sa chi e quando avrebbe trovato il cadavere. Non avevi supposto che saremmo giunti noi: volevi far pensare a un incidente, ma ti è andata male.” Il graduato aveva supposto che l’individuo avesse ucciso con premeditazione per ragioni legate al mercato nero, forse per proprio diretto interesse, forse su incarico di terzi. Che si trattasse d’omicidio volontario era sostenuto dal fatto che l’uomo calzava guanti in lana nonostante la stagione ancora tiepida: al fine di non lasciare impronte, era stato spontaneo pensare. Sul momento il sospettato, in pieno rimescolamento mentale per l’inaspettato intervento degli agenti, non aveva trovato cosa rispondere. Poiché da vicino si poteva ben osservare che non solo portava abiti da manovale, ma ch’essi erano logori e piuttosto sporchi, l’appuntato s’era convinto che non potesse trattarsi d’un cliente sessuale della donna, e d’altronde l’uomo non aveva su di sé denaro, come s’era appurato frugandolo. Non aveva neppure carta d’identità, ma una patente di guida sì, da cui risultava essere nato a Napoli 42 anni prima, di abitare in vicolo Santa Luciella e di chiamarsi Gennaro Esposito, nome e cognome peraltro comunissimi in Campania e soprattutto a Napoli, che avrebbero potuto essere falsi, così come il permesso di guida; era infatti noto in Questura che la delinquenza, e in particolare la camorra, s’avvaleva di tipografi abilissimi nelle falsificazioni. Il capo ronda non aveva dato gran peso al documento.

      Aveva chiamato la sala operativa della Centrale, attraverso la radio della camionetta, e riferito l'accaduto. La Sezione Delitti di Sangue aveva avvertito per telefono il centralino dell’obitorio, chiedendo di mandare a casa della morta, per i primi accertamenti, l’anatomopatologo in servizio, che per quel turno era il dottor Giovampaolo Palombella, un sessantenne dai lunghi e folti capelli grigi, tenuti regolarmente spettinati, alto, segaligno e, forse a causa del suo ultratrentennale chinarsi sui cadaveri da sezionare, un po’ curvo. Nello stesso tempo era stato inviato a casa della vittima un maresciallo maggiore, tal Bruno Branduardi, uomo basso, obeso e tranquillo prossimo alla pensione, perché ispezionasse, ascoltasse gli agenti della ronda e il medico e annotasse tutto sul proprio taccuino per riferire, al ritorno, al superiore di turno.

      Il sottufficiale era giunto in piazzetta del Nilo sulla propria lenta motoretta modello La Piccola Italiana2 che, smilza com’era, pareva mal sopportare il gravoso peso di quell’uomo pletorico. Aveva per prima cosa prestato orecchio agli agenti, poi al medico legale, ch’era arrivato un po’ dopo di lui, con due inservienti, sopra un furgone per il trasporto dei cadaveri. L’anatomopatologo aveva escluso il suicidio, aveva ritenuto possibile un incidente, dato che il colpo, a prima vista, non gli pareva essere stato violentissimo. Non aveva scartato però l’omicidio, riservandosi d’essere preciso dopo l’autopsia. Il maresciallo ne aveva preso nota, aggiungendo sul suo taccuino, a commento, che a suo parere non s’era trattato di disgrazia ma d’omicidio e che proprio il fermato, per lui, era l’assassino. In realtà s’era semplicemente allineato a quanto supposto e riferitogli dall’appuntato. Il cadavere era stato rimosso e caricato sul furgone dai portantini, per essere condotto all’obitorio dove sarebbe stato sottoposto ad autopsia. Da parte sua il Branduardi, dopo aver sveltamente ispezionato l’appartamento e constatato che non c’era nessuno, aveva ordinato agli agenti di mettere i sigilli alla porta d’ingresso, di portare il fermato in Questura e metterlo in guardina, in attesa che venisse affidato a un commissario per l’interrogatorio: in quel tempo la legge non prevedeva l’intervento d’un magistrato né sul luogo del delitto, né durante il colloquio inquisitorio del funzionario di Polizia con l’indiziato, che avveniva senza la presenza del suo avvocato. Il giudice istruttore subentrava se il commissario inquirente, avvalendosi del referto autoptico e avendo interrogato il sospettato, avesse ritenuto trattarsi d’un omicidio e ne avesse inviato rapporto alla Procura del Regno. In caso invece di disgrazia, la pratica, vistata dal vice questore, veniva semplicemente archiviata senza séguiti giudiziari.

      Il Branduardi s'era accodato alla camionetta, perdendo però terreno per la bassa velocità della motoretta ormai vecchia e sfiatata. All’arrivo, mentre il fermato già era in camera di sicurezza, il maresciallo era salito al proprio ufficio nella Sezione Delitti di Sangue al secondo piano, stanza che divideva con un brigadiere e un agente dattilografo, e con flemma s’era preparato un caffè di guerra, un surrogato, con la propria macchinetta napoletana che teneva nell’armadio insieme a un fornellino elettrico a incandescenza. Se l’era sorbito bollente dopo averlo addolcito con una pastigliuccia di saccarina, non perché diabetico ma in quanto lo zucchero, dall’entrata in guerra, era introvabile per i comuni mortali. S’era quindi fumato una sigaretta Serenissima Zara con calma altrettanto celeste, assaporandola fin quasi all’esaurimento della cicca che, per le ultime due boccate, aveva trattenuto infilzandola con uno spillo, come in quei tempi di carestia e sigarette senza filtro non pochi fumatori usavano fare; e finalmente, a passo lemme, aveva portato il foglietto col rapporto, non più di venti metri sullo stesso piano, a uno dei vice comandanti della Sezione Delitti di Sangue, un certo commissario capo Riccardo Calvo ch’era di turno quella notte fin alle ventiquattro. Alle ore zero e pochi secondi il Branduardi se n’era andato a casa a dormire e, poco dopo, pure il Calvo dopo aver lasciato il rapporto del maresciallo sulla scrivania del suo pari grado subentrante, il dottor Giuliano Boni.

      L’uomo in salopette aveva seguitato a starsene chiuso in camera di sicurezza.

      Finalmente, su ordine del commissario capo Boni, il caso Rosa Demaggi era stato rifilato a un quasi imberbe vice commissario montato in servizio a mezzanotte, il dottor Vittorio D’Aiazzo, da poco meno d'un anno attivo in Pubblica Sicurezza e, fin dal primo giorno, assegnato alla rognosa Sezione Delitti di Sangue.

      Erano circa le 3 di notte del 27 settembre 1943 e l’insurrezione che la Storia ricorda come Le Quattro Giornate di Napoli stava per scoccare: la pignatta dell’angariatissima città stava ribollendo e la temperatura era salita ormai a tale grado che impossibile sarebbe stato, per il tedesco occupante, impedirne l’eruzione ardente.

      Capitolo 2

      Il sentire del popolo di Partenope era rimasto oscuro allo sprezzante invasore nazista e la paura che questi aveva inteso diffondere in città s’era risolta in bollore d’animo e desiderio di ribellione. Facimmo ‘a uèrra a chilli strunzi zellosi3 era ormai il sentimento di numerosi napoletani, nella sensazione che, san Genna’ ajutànno4 ! ci si sarebbe affrancati e, finalmente, la pace sarebbe stata vera-verissima e non più l’illusione nata e morta un paio di mesi prima:

      Il 25 luglio l’Italia aveva esultato per la caduta nella notte del regime, apparsa definitiva con Mussolini esautorato dallo stesso Gran Consiglio del Fascismo e fatto arrestare dal re, e col nuovo Governo Badoglio non più fascista, anche se non democraticamente eletto; ma era stato anzitutto l’abbaglio che il conflitto fosse finito a far gioire la nazione. Tuttavia, ben presto nel Paese s’erano alzate lamentazioni che a Napoli avevano presentato toni pittoreschi lungo i vicoli e all’ombra dei bassi, come: Chillo capucchióne d’o nuvièllo Càpo ‘e Guviérno5 , ‘o maresciallo d’Italia Badoglio Pietro, ‘o gran generalone! ha fatto di’ a ‘a ràdio, tòmo, tòmo6 : “La guerra continua”: strunz’ e mmèrda! C’erano stati, poi, coloro che avevano puntualizzato: Nossignori, strunzi noi ati a penzà che ‘nu maresciallone vulisse ‘a pace!7 Ma va’ ffa ‘n ‘c… Con l’armistizio di Cassibile, siglato fra l’Italia e gli angloamericani il 3 di settembre e che avrebbe dovuto restare segreto fin al riassetto delle forze armate italiane ad argine del vendicativo ex alleato, ma era stato reso noto il giorno 8 da vanagloriosi generali vincitori, era piombato sull’Italia, attraverso il Brennero, un male peggiore di prima: molte nuove, agguerrite e astiose divisioni germaniche s'erano aggiunte ai reparti tedeschi già presenti sul territorio. “Perché mai”, si chiedevano gl’italiani più provveduti, “i governanti e i capi militari non hanno saputo predisporre a tempo un piano d’emergenza?