Alfredo Aiello

Venezia. Ciminiere Ammainate


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rinviano l’incontro per la sottoscrizione dell’accordo appena approvato dai lavoratori e così si legge su Il Gazzettino di Venezia del 12 novembre 1992:

      

      

       I segretari contestati contrattaccano. In un comunicato stringatissimo, ma furioso, i due sindacalisti stigmatizzano l’atteggiamento dei rappresentanti dei lavoratori e rinviano l’incontro già fissato al Ministero del Lavoro, il 12 novembre. Al tempo stesso verrà organizzata un’assemblea dei lavoratori per porre fine a ogni interpretazione di ciò che è stato deciso nell’ultima assemblea.

      

      

      L’esito di questa seconda assemblea lo lasciamo descrivere a Fullin:

      

      

      Â« A pochi giorni di distanza, di nuovo in assemblea, la maggioranza che aveva ratificato l’accordo si riduce a pochi voti e tra questi cominciano a prevalere i distinguo» (41. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, Marsilio, Venezia 1994, p. 131).

      

      

      Il cronista de Il Gazzettino di Venezia Paolo Navarro – che a differenza di Fullin è presente all’assemblea – sul quotidiano uscito il giorno dopo l’assemblea, cioè il 17 di novembre, scrive:

      

      

      Â«Ãˆ stata dura, durissima, ma alla fine i sindacati hanno vinto... Oggi, alle 14.30, a Roma, nella sede del Ministero del Lavoro... firmeranno la “bozza di accordo” elaborata quindici giorni fa...» (42. Navarro P., Alucentro vincono i sindacati ma la maggioranza è risicata, « Il Gazzettino di Venezia», 17 novembre 1992).

      

      

      Ãˆ l’accordo che aprirà la strada alla nascita di una nuova attività produttiva. Ma un’altra divisione vedrà contrapposti nei mesi successivi il Cdf e i sindacati. Chi dovrà gestire la nascita della nuova attività? In campo ci saranno due proposte, una della Cesam, un’impresa creata dalla Compagnia Lavoratori Portuali, e l’altra di una società formata da una cordata di imprenditori locali. Il Cdf è più incline alla proposta della Cesam, i sindacati, invece, all’altra, che poi darà origine al Centro Intermodale Adriatico. Lasciamo ancora parlare Fullin:

      

      

       “Il 7 maggio 1993 si arriva finalmente all’accordo di cessione, firmato a Roma e preceduto, due giorni prima, dalla definizione dell’intera materia a livello locale tra tutte le parti interessate... non prima del 15 novembre 1993, data fissata per il rogito, al Centro Intermodale Adriatico, che, a differenza della Cesam, si impegna a riassumere, nel tempo ma in tempi certi, tutte le maestranze. È una vittoria, finalmente, vera. Inoltre, essa conferma quello che i lavoratori dell’Alucentro hanno pensato fin dall’inizio...” (43. Cerasi E., Quando la fabbrica chiude, cit., pp. 132-133).

      

      

      Ma su quali basi si esprime un simile giudizio, che stravolge fatti facilmente ricostruibili su base documentale? Si è chiesto Fullin se i lavoratori sarebbero stati parimenti in grado di esprimere questo giudizio senza l’approvazione dell’accordo grazie a quella votazione che lui stesso ha definito a “maggioranza risicata”? E si è chiesto in quali condizioni si sarebbero ritrovati i lavoratori dell’Alucentro se la loro lotta in difesa dell’occupazione fosse stata impostata, come voleva il Consiglio di fabbrica, sulla difesa dell’attività esistente e cioè mantenendo le produzioni di anodi? E chi sarebbe stato considerato responsabile di una sconfitta sicuramente pesante? Negli anni successivi tutti i lavoratori ex Alucentro rimasti senza lavoro sono stati riassorbiti dal Centro Intermodale Adriatico, dopo un periodo di formazione professionale. Gli imprenditori rimasti nella nuova società crearono accanto al Centro Intermodale Adriatico la società immobiliare Interporto di Venezia SpA, che ha proseguito in una costante politica di sviluppo nel settore della logistica, portando le aree utilizzate a tale scopo dai 227.470 mq del 1993 ai 296.500 del 2004. Rimane da chiedersi solo chi ha meglio interpretato ciò «che i lavoratori dell’Alucentro hanno pensato sin dall’inizio» non tanto per distribuire voti, quanto per capire come accanto a inevitabili processi “oggettivi” complicati e difficili da risolvere si aggiungono altrettanti problemi che hanno una natura “soggettiva” e se la gestione di un tale processo realizzata con una significativa partecipazione può sempre aiutare la ricerca della soluzione possibile.

      

      

      

      

       Difesa dell’occupazione e condizioni di lavoro: il caso Fincantieri

      

      

      A Porto Marghera gli effetti di questa intensa, diffusa e prolungata lotta per (non perdere) il lavoro hanno finito per concentrare la discussione e le iniziative sindacali quasi esclusivamente sul terreno delle politiche industriali e occupazionali. Ciò è vero per la grande fabbrica sindacalizzata e con una forte presenza all’interno dei partiti politici, cioè per realtà produttive nettamente minoritarie rispetto a quelle dove risulta impiegata la quota principale del lavoro dipendente. Infatti la realtà delle piccole aziende ha visto processi più intensi di sfruttamento e di peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita. Pur tuttavia non va dimenticato che la “minoranza” delle grandi fabbriche, avanzando, ha finito per “trascinarsi” dietro nel l’esercizio dei diritti, come sul salario, anche la maggioranza del lavoro dipendente delle piccole aziende. Pensiamo ad alcune significative conquiste che sono state estese a tutti i lavoratori dipendenti, come l’inquadramento unico dei metalmeccanici (1973) o il diritto all’informazione sui piani produttivi e sugli investimenti delle aziende (1976).

      Pensiamo, poi, ad alcuni grandi obiettivi che hanno rappresentato per il sindacato, nelle fasi di crescita, un terreno di ulteriori e significative acquisizioni attraverso la contrattazione:

      1) le qualifiche professionali come strumento per intervenire e controllare l’organizzazione del lavoro e, quindi, lo sviluppo professionale di ogni singolo lavoratore; 2) il controllo dei ritmi di lavoro; 3) l’intervento sull’ambiente di lavoro attraverso l’eliminazione di tutti i fattori portatori di nocività per i lavoratori come pure per il territorio circostante; 4) il controllo degli orari di fatto; 5) il salario aziendale.

      

      

      Molte delle vertenze aziendali condotte su questi temi avevano spesso avviato momenti di sperimentazione, stravolti e superati con il sopraggiungere delle crisi aziendali. La mancanza di lavoro finisce inevitabilmente per mutare i rapporti di forza nei luoghi di lavoro a danno dei lavoratori. L’esempio dello stabilimento di Porto Marghera, del gruppo Fincantieri, è illuminante (44. Aiello A., La Fincantieri e la crisi della cantieristica italiana, in «Economia e società regionale», 2, 2004). A metà degli anni Ottanta il cantiere veneziano passa dal gruppo Efim all’Iri, proprio mentre vive una delle crisi più difficili della sua storia. La mancanza di lavoro investe tutti i cantieri di costruzione in Italia. Il sindacato, per rispondere a questa difficile situazione, chiede e ottiene l’apertura di un negoziato a livello nazionale, con Governo e Fincantieri, per acquisire provvedimenti idonei al superamento delle difficoltà. L’iniziativa sindacale finirà per concentrarsi, però, quasi esclusivamente sull’emergenza occupazionale. Del resto le preoccupazioni nei cantieri, da Palermo a Monfalcone, vedono tutti coinvolti: operai, impiegati, tecnici, dirigenti. Una fase, questa, che sarà superata grazie alle “leggi di sostegno” al settore navalmeccanico emanate dal Governo. Ma si imporranno,