dunque la teoria di Marx per praticarla in maniera sempre più adeguata alle esigenze determinate e diverse della lotta di classe â sia come critica dellâeconomia politica che come teoria del partito: questo è il compito che ci è datoâ. ( 30. Negri A., Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 5-6).
E ancora:
âMa il progetto capitalistico oggi non interpreta solo la forza dellâimpatto operaio sulla struttura dello Stato pianificato: tenta di interpretarne anche la forma, la figura cioè in cui esso si è sviluppato, la figura dellâoperaio massa. Interpretarla per assumerla e distorcerla. La fluidificazione di tutti i momenti del ciclo produttivo rappresenta la faccia positiva del progetto capitalistico, la ristrutturazione vera e propria â con contemporaneo aumento della produttività delle forze del lavoro singolo e del lavoro sociale... â. (31. Negri A., Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1974, p. 34).
E in un testo di qualche anno dopo:
â... torniamo al significato fondamentale di questo libretto e alla proposta che in esso si contiene. Essa consiste nella convinzione che la crisi dellâoperaio-massa determina un allargamento dellâesistenza cosciente e delle rivolte proletarie e che è in riferimento a questa nuova dimensione della proletarizzazione che il progetto di organizzazione deve essere messo in atto. Consiste inoltre nella convinzione che su questa nuova dimensione la richiesta proletaria di comunismo, subito, è più larga e pressante che maiâ. ( 32. Negri A., Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 8-9).
Sono posizioni politiche che mirano ad âattaccareâ e âdemolireâ il modello di sviluppo capitalistico e a conquistare, su quelle basi politiche, la classe operaia. Ma la presenza organizzata di sindacati e Pci fa da barriera. I comunisti, anche a Porto Marghera, erano abituati a due tipi di anticomunismo: quello di destra, che si manifestava con la pregiudiziale verso ogni forma di partecipazione del Pci al governo del Paese, e quello di sinistra che si esprimeva tradizionalmente, come evidenziato da Angelin, in una contestazione ai vertici del Pci (e del sindacato) in quanto partito riformista, accusato di aver abbandonato la prospettiva rivoluzionaria. Era, questâultima, una critica che mirava a creare una frattura tra base e vertici sia nel Pci che nel sindacato, per spingere verso lotte ârivoluzionarieâ ampie masse di lavoratori.
Non a caso molti, o quasi tutti, i leader della contestazione studentesca del â68 uscivano dal Pci e passando dallâorganizzazione dei gruppi avevano in mente proprio un disegno del genere. (33. Cfr. lâintervento di Asor Rosa A., in Bianchi S., Caminiti L. (a cura di), Settantasette. La rivoluzione che viene, DeriveApprodi, Roma 2004, p. 149).
Sempre Angelin ci ricorda che a questi attacchi il Pci rispondeva «senza concedere nulla. Poi i militanti di Potere Operaio âscopronoâ il ânemicoâ che detiene per davvero il potere e ostacola lâavanzamento della classe operaia: la Democrazia Cristiana e la Confindustria. E parecchi di questi militanti, quando Potere Operaio si scioglie, entrano nel Pci». Ma non sarà un passaggio breve, né senza contraddizioni. In quei giovani vi era un nuovo modo di concepire e praticare la lotta al Pci. à unâevoluzione, prodotta da un gruppo di intellettuali che consideravano la loro capacità di analisi politica superiore e che perciò erano convinti che avrebbero sconfitto il gruppo dirigente del Pci. Non tutti puntavano a questo obiettivo. Lâintervista a Gianni Pellicani mette in rilievo la scelta consapevole di alcuni intellettuali, dirigenti del movimento studentesco e di Potere Operaio, Massimo Cacciari in particolare, che partivano dalla premessa che il Pci era entrato in crisi di fronte a una ristrutturazione capitalistica conseguente a una ristrutturazione delle lotte. Affermava Cacciari nel 1985:
â... La nostra presenza [di Potere Operaio, a Porto Marghera] rimane limitata alle ânuoveâ fabbriche. à insieme un âsegno dei tempiâ e la dimostrazione che lâorganizzazione complessiva della classe operaia non si âinventaâ fuori della storia del movimento operaio. Anche su questi motivi matura la rottura tra Negri e me, nellâestate del 1968... Alcuni idioti hanno recentemente lasciato trasparire lâipotesi che sia avvenuta sui problemi della âmilitarizzazioneâ. Mi spiace deluderli nella loro ricerca di arretrare il più possibile lâorigine del terrorismo rosso. Ma la rottura con Negri avviene essenzialmente sul problema del partitoâ. (34. Calimani R., Pierobon V. (a cura di), Le radici del futuro, Regione del Veneto e Marsilio Editori, 2005, pp. 28-29).
Nei contestatori del Pci vi era anche unâidea precisa sulle disuguaglianze sociali, sempre più percepite come elementi di esclusione dalle opportunità di vita. Valevano, insomma, più le norme e i valori esterni ai luoghi di lavoro che le condizioni di lavoro in sé. Ecco perché Toni Negri saluta con piacere da un lato la scomparsa dellâoperaio-massa e dallâaltro le nuove forme di emarginazione che vedono la luce. In ciò Negri, proprio come André Gorz quasi un decennio dopo, ha colto spazi di manovra politica per i movimenti sociali radicali. In Addio al proletariato, Gorz sostiene, in straordinaria similitudine con Negri, che una « non classe di non operai», che non si identifica né con lâidea dellâ«operaio» né con quella del «disoccupato» ma che si inserisce nel settore dellâ«occupazione aleatoria, a termine, occasionale, provvisoria e a tempo parziale», è salutata come la forza nuova di una radicale trasformazione sociale (35. Gorz A., Addio al proletariato. Oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, Roma 1982, p. 69).
Con questo retroterra politico emersero anche movimenti di estrema sinistra come Avanguardia Operaia e Lotta Continua che puntavano a rivendicazioni âmassimalisteâ in aperto antagonismo al Pci e ai sindacati.
Difesa dellâesistente o nuove iniziative industriali? La vertenza Alucentro
Nelle crisi aziendali si sono quasi sempre misurate due linee sindacali e politiche nettamente contrastanti. La prima mirava alla difesa dellâesistente ed era rappresentata dallo slogan «Nessun posto di lavoro si tocca». Era una linea che dichiarava lâirreversibilità della crisi qualora, nel polo industriale, si arrivasse sotto una data soglia occupazionale. Praticamente, una chiusura totale a ogni trattativa che presupponesse la riduzione degli occupati. La seconda, invece, era una linea disponibile alla contrattazione, nella convinzione che unâ ideologica âdifesa dellâesistenteâ portasse a un logoramento dei lavoratori e del sindacato senza evitare i contraccolpi negativi sullâoccupazione. Si può dire che la prima tendeva ad affrontare la questione politicamente: gli accordi cartacei con le alternative ai licenziamenti non bastano, esse vanno costruite effettivamente e solo dopo si accetterà non i licenziamenti, ma il passaggio da un lavoro a un altro. La seconda, più âmorbidaâ, considerava più efficace mettere le mani nel âpiattoâ per non correre il pericolo di limitarsi ad affermazioni di principio che non avrebbero né fermato i licenziamenti,