Alfredo Aiello

Venezia. Ciminiere Ammainate


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sociali delle crisi aziendali. Dopo la crescita degli anni Settanta e il declino degli anni Ottanta, gli anni Novanta si caratterizzano per il rallentamento delle espulsioni di manodopera dalle fabbriche e, ancor più, per la diffusa consapevolezza della necessità di riequilibrare il modello industriale basato sulle grandi aziende soprattutto pubbliche e concentrato sulle produzioni di base. Così nel settore petrolchimico si intensifica il processo di automazione, mentre in Montedipe, Agrimont, Ausimont si portano avanti soluzioni organizzative nuove. Nel settore alluminio, invece, si cerca di riconvertire le attività passano dalla produzione primaria ai prodotti finiti, utilizzando la nuova società Alutekna. Nella cantieristica si passa dalla costruzione delle tradizionali navi commerciali alle sofisticate navi passeggeri, sempre più imponenti, e lo stabilimento della Fincantieri di Porto Marghera si colloca tra i protagonisti a livello mondiale in questo nuovo mercato. È da ricordare anche l’impatto delle decisioni prese in sede europea che pongono ai singoli Stati precise condizioni volte a riorganizzare su scala europea le industrie nazionali. Numerose leggi di settore intervengono a disciplinare le attività produttive, in termini di quantità di produzione, aiuti pubblici, impatto ambientale, ecc. Il caso Fincantieri (7. Aiello A., La Fincantieri e la crisi della cantieristica italiana, in «Economia e società regionale», 2, 2004) è paradigmatico della ristrutturazione industriale avvenuta su scala europea. E lo stesso è accaduto anche in altri settori industriali come la siderurgia, la metallurgia non ferrosa, la chimica. Gli interventi europei volti a eliminare gli aiuti di Stato alle imprese, cioè a eliminare la concorrenza sleale nel mercato comunitario, hanno mirato a determinare una gestione più oculata delle risorse. Da qui profonde ed estese ristrutturazioni e riorganizzazioni produttive, con interventi sugli impianti, sull’organizzazione aziendale, sull’occupazione.

      

      

      

      

       La “Vertenza Venezia”. Una gestione unitaria del polo industriale?

      

      

      Il 5 febbraio 1981, al cantiere navale Breda di Porto Marghera è convocata dalla Federazione Cgil, Cisl e Uil di Venezia una riunione delle segreterie dei sindacati di categoria e dei Consigli di fabbrica per discutere «sulla preoccupante situazione di Porto Marghera, e soprattutto per le prospettive del Polo, che si lega organicamente con la crisi del sistema delle Partecipazioni Statali e con gli inaccettabili ritardi nella costruzione di una strategia di riorganizzazione dell’industria di base a seguito della crisi energetica...» (8. Ghisini G., Sintesi della relazione tenuta a nome della segreteria Cgil, Cisl e Uil, Porto Marghera, febbraio 1981, dattiloscritto). Nella relazione dei sindacati si chiede «un contributo più efficace» dei partiti politici e delle istituzioni locali, in vista di un progetto del sindacato su «Marghera e sull’area veneziana». Nasce così la Vertenza Venezia, un « progetto di sviluppo economico, produttivo e occupazionale dell’area veneziana» (9. Di Renzo T., Eravamo bonzi. Ricordi senza remore delle lotte sindacali del 1980. Il petrolchimico di Porto Marghera, Marsilio, Venezia 1988, pp. 145-148). Si mira, con essa, a unificare le lotte dei lavoratori sui problemi occupazionali, evitando di rincorrere le singole situazioni di crisi. Vengono individuate con precisione anche le controparti cui le rivendicazioni sono state indirizzate: Associazione Industriali, Costruttori edili, Confcommercio, Associazione piccole aziende, Intersind e Asap (associazioni di aziende industriali pubbliche poi confluite in Confindustria), come pure Governo, Regione, Comune e Comprensorio. Il primo sciopero a sostegno delle richieste sindacali, il 17 febbraio 1981 in piazza San Marco a Venezia, con l’intervento conclusivo di Luciano Lama, segretario generale della Cgil nazionale, vede la partecipazione di oltre 30.000 persone.

      

      

       Il limite di queste iniziative è che ci sono stati risultati politici importanti ma non pratici. E senza risultati pratici i problemi di Marghera non si risolvono. Dobbiamo interrogarci più a fondo sul perché Governo, Regione, Comune, padronato, partiti, si sono trovati d’accordo sugli interventi proposti dal sindacato e alla fine... sono venute a mancare le cose pratiche. Come pure dobbiamo interrogarci su un altro limite, che perdura e che rischia di diventare un vero pericolo: questa piattaforma Venezia è nata per l’insieme dei lavoratori veneziani, non può essere solo la piattaforma dell’industria o di una parte di essa . (10. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva Comitato Direttivo Fiom-Cgil, Venezia 30 marzo 1983, dattiloscritto)

      

      

      Per il sindacato era l’intero polo industriale a essere posto in discussione. Da qui, l’esigenza di avere – innanzitutto dal Governo – risposte che coniugassero le politiche industriali ed economiche nazionali con il riassetto del territorio. Non una vertenza di “campanile”, corporativa, ma al contrario aperta al contributo delle forze politiche e istituzionali e dello stesso sindacato nazionale. I bisogni e le aspirazioni dei sindacati veneziani dovevano però scontrarsi con i bisogni e le aspirazioni di altri soggetti presenti nell’arena politica.

      

      

      

      

      

       Quale politica industriale: territoriale o nazionale di settore?

      

      

      Facendo leva sulla competitività dei siti industriali, si mirava a non subire una politica industriale calata dall’alto, frutto di decisioni tutte nazionali, all’interno delle quali non poco peso finivano per avere le questioni sociali. Comunque non sempre il primato dell’efficienza avrebbe privilegiato Porto Marghera – e in generale il Nord – a discapito del Sud Italia, considerato spesso come un’area assistita. Valga per tutti il caso Italsider: il centro siderurgico di Taranto avrebbe potuto, da solo, far fronte all’intero fabbisogno di produzione di acciaio del Paese. Una valutazione prettamente economica avrebbe dato ragione alla scelta di puntare tutto su Taranto, ma poi chi avrebbe gestito le negative e pesanti ricadute e cioè lo stop alle attività a Napoli, Genova, Trieste, Venezia? Sarebbe stata una scelta comprensibile se basata su una politica di settore e basta: ma diventava subito dopo una scelta inaccettabile se vista nell’ottica dei territori. L’iniziativa veneziana poteva, perciò, essere considerata come una sorta di fuga in avanti, un pensare a sé a discapito degli altri. È significativa, a tale proposito, un’intervista rilasciata a Toni Jop del quotidiano L’Unità, il 27 maggio 1981, dall’allora ministro delle Partecipazioni Statali, Gianni De Michelis: (11. Jop T., De Michelis: “Tagliare per rilanciare”. Pellicani: “Chi è mancato è il governo”, «L’Unità», 27 maggio 1981).

      

      

       “L’Alumetal di Fusina raddoppierà?

      

       Rinviamo di tre anni il raddoppio e intanto facciamo funzionare Bolzano. Non chiudiamo l’Alumina ma non la lasciamo così com’è. Facciamo funzionare l’Elemes.

      

       Quindici giorni fa, l’Efim ha chiesto al governo 300 miliardi per finanziare un programma che prevede anche e soprattutto il raddoppio di Fusina; ora lei afferma cose molte diverse da quelle dette dall’Efim...

      

       Ma è una cosa all’italiana; per l’alluminio seguiremo la stessa strada battuta per la siderurgia.

      

       Breda: si “taglia” o no?