Delio Zinoni

Lia


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      DEDICA

       a E. Z. ... multa per aequora

      (0) NEL DESERTO

      Il foglio bianco è simile a un mare di insondabile profondità. Da esso può affiorare qualsiasi cosa: sirene e leviatani, perle e vecchie scarpe.

      La somiglianza non era sfuggita agli antichi, che spesso hanno paragonato la scrittura ad un viaggio marino; e a navi, vascelli e barche il loro ingegno avventuroso.

      Altri, all’opposto, hanno affermato che tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Perciò hanno preferito un’altra metafora, e altre onde: quelle del deserto. Infatti, a differenza del mare, il deserto non nutre nel suo fondo creature vive, e ciò che affiora sono solo i relitti di civiltà trascorse. Elmi di guerrieri, ossa di giganti, pietre di fortezze. Tutto ciò che un tempo era splendido, viene macinato dalla sabbia e ridotto a sua sembianza. Solo quanto è già stato fatto dagli uomini ricompare fra le dune.

      Questi due oceani sono perciò opposti? Forse no. Poiché alcuni saggi sostengono che un tempo i deserti erano mari di acqua. E portano a dimostrazione di questa loro affermazione rocce in cui compaiono impronte di conchiglie e di pesci. E se un tempo i deserti erano colmi di vita forse un giorno ne produrranno ancora, di nuova.

      Inoltre, senza cercare con lo sguardo epoche lontane del passato o del futuro (poiché la brevità della vita umana impone moderazione anche al pensiero), non esistono forse nel deserto le oasi? Come questa dove sto scrivendo. Nel grande mare del deserto, la vita fiorisce: fontane sgorgano, dove nuotano pesci; ci sono alberi da frutto, e prati dove brucano le capre. Giardini chiusi da mura, e uccelli di ogni specie fra i rami. E le acque di questa oasi, come tutte le acque del mondo, torneranno prima o poi in quell'immenso Oceano che abbraccia tutte le terre.

      Perciò, forse, questi due emblemi non sono troppo dissimili.

      In entrambi i casi, per chi non cerca l’attenzione di un’ora, o l’orecchio distratto del mercante, accingersi a scrivere suscita sgomento nel cuore; la sensazione di essere in bilico fra lo smarrirsi e la futilità.

      E tuttavia, la storia che ho sentito raccontare quando ero giovane da uno straniero che aveva attraversato il mare e il deserto, e in cui io stesso ho avuto una piccola parte, non appare indegna di essere narrata nuovamente e scritta, affinché non cada nell'oblio. Perciò, giunto ormai al mezzo della mia vita e avendo troppo indugiato, io, Djab ab-Varani, con l’aiuto del Signore, mi accingo a mettere sulla carta per la prima volta la storia degli amori di Arquin e Lia.

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      (1) LA STRADA

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      Lungo la strada che dalle montagne conduce al mare cambiò il mio destino.

      La strada è in salita in quel punto, e io correvo per raggiungere il vecchio cimitero dove mi attendevano i miei amici e compagni, cavalieri di ventura fra i boschi e i casolari abbandonati intorno a Morraine.

      Avevo compiuto da poco dieci anni.

       Qui l’uomo si interruppe, scrutando fra le braci, e noi, ai margini del cerchio di luce arancione, trattenemmo il respiro, in attesa.

       Come inizio di una storia non era in verità molto promettente. Ma noi naturalmente non potevamo fare a meno di chiederci quali avventurose vicende avessero mai portato l’uomo dalla folta barba grigia a naufragare nel nostro mare di sabbia.

      Correvo, riprese l’uomo con la sua pronuncia incerta, rallentando spesso per cercare le parole di una lingua che gli era estranea, e il cuore mi batteva forte, un po’ per la corsa, un po’ per l’ansia dei giochi, e il sangue mi pulsava nelle orecchie, e fu per questo che non sentii il carro che arrivava da dietro una curva, lungo la discesa. Il guidatore tirò le redini, i cavalli sbuffavano scalpitando, nel tentativo di fermarsi, i sassi schizzavano sotto gli zoccoli, ma il carro era grande e pesante.

      Poi mi trovai sospeso a qualche braccio di altezza e guardavo tutta la scena: io steso a terra, il carro che si era messo per traverso sulla strada, la gente che scendeva correndo verso il mio corpo.

       L’uomo spalancò le braccia, guardandoci con occhi grandi che riflettevano le fiamme, e quel suo sorriso che allora non riuscivo a definire, ma che è la cosa che ricordo meglio di lui, e ripensandoci, aveva questa qualità: che riusciva ad essere malizioso e infantile insieme. E in quel momento ci sfidava a credere alle sue parole.

       Ero morto, disse con voce più profonda, balzando in piedi e facendo un passo verso di noi che eravamo più piccoli, cosicché io feci un mezzo balzo indietro da dove ero seduto, per terra, e mi aggrappai a mia sorella. E sebbene lei avesse tre anni più di me, sentii che anche il suo cuore batteva forte.

      Le foglie del bosco erano nitide come se un artista le avesse ritratte una per una dopo un temporale, in quella primavera calda che riempiva l’aria di pollini ed esplodeva di verde. E sul fianco del carro, che sembrava una casa su ruote, con tetto e piccole finestre, c’era una scritta.

       DOTTOR LELIUS ABRAMUS

      

       Mago, Veggente e Burattinaio

      

       e il suo straordinario spettacolo di

      

       Trapezisti Giocolieri Domatori Saltimbanchi

      

       Prestigiatori Equilibristi Pagliacci Pirofaghi

      

      

      Sul retro del carro, un emblema: una sirena, con la faccia per metà nera per metà bianca, per metà triste per metà lieta. Ma non era la faccia: era una maschera. E non era sul volto, ma sulla nuca, perché guardando bene i particolari anatomici, si poteva capire che la sirena volgeva la schiena.

      Qualcuno era chino su di me, cioè su di me steso a terra: un uomo vestito di scuro, con una grande barba. Io ero molto pallido, e fu solo in quel momento che ebbi paura, sebbene mi sentissi molto bene sospeso in aria. “Mamma, mamma,” pensai.

      â€“ Ho tanto male. – Perché ero di nuovo sulla strada, e la testa, dove uno zoccolo mi aveva colpito mi faceva davvero un male terribile. E aprendo gli occhi vidi tre facce chine su di me: quella con la barba; una donna non più giovane ma molto bella, dai capelli rossi; un vecchio dai capelli bianchi.

      â€“ Non preoccuparti, non ti sei fatto niente di grave. Ti portiamo noi dalla tua mamma – disse la signora. Poiché era vestita da signora. Il vecchio mi appoggiò una pezza bagnata sulla fronte. Ma io fissavo gli occhi dell’uomo con la barba, che erano neri e molto profondi. E il dolore, come d’incanto, sparì davvero.

      Mi alzai a sedere. Mi dispiaceva di non volare più come prima. Ma siccome il mio demone è sempre stato la curiosità, chiesi: – Cosa vuol dire pirofaghi? – L’uomo sorrise. Cioè, mosse appena i muscoli ai lati della bocca, e le rughe attorno agli occhi si approfondirono. Ma era un sorriso sufficiente per il dottor Lelius Abramus.

      â€“ Sai leggere – disse. Mi accarezzò la testa. – Vuol dire mangiatori di fuoco. – Si voltò a guardare il carro. Che come ho detto si era messo di sbieco, e l’unica parte che si poteva vedere da lì era il retro. Il