quieta fra i singhiozzi. Raccoglie le ossa della moglie, aiutato dal compagno, appresta per esse una sepoltura. Infine vi pone accanto quelle dello straniero. Lâunico conforto è perdonare.
La notte cala sui due, senza che si scorga un barlume di speranza.
Ed ecco lâepilogo.
Da una macchina scenica cala sul palco la Dea del Mare, Astar in persona. Fra le braccia stringe un fanciullo di grande bellezza. Teseius è steso a terra, addormentato. Forse si tratta di un sogno.
La dea spiega che lâamore di Phenissa e il perdono di Teseius hanno placato la sua ira. Nel maremoto il figlio di Phenissa e dello straniero si è salvato: la sua culla ha galleggiato sulle acque, ed è stato raccolto. Egli fonderà una nobile città , e la sua stirpe avrà lunga vita fra gli uomini.
Cala il sipario. La dea scompare. Termina il dramma.
Era davvero una bella storia, piena di tragica grandezza e di tenera passione, e lâapprezzammo tutti. Qui, nellâoasi, siamo sempre avidi di nuove storie, e i bravi narratori sono grandemente onorati.
Lì, nel Cortile Segreto (proseguì il naufrago), piansi per Phenissa. Avrei voluto essere Teseius, avrei voluto essere lo straniero. Avrei, soprattutto, voluto essere Lelius, che aveva abbracciato la fanciulla nelle vesti di entrambi.
â Iko... Iko...! â Era Jues che mi chiamava. Io ero già arrivato in fondo alla fila di panche, disturbando parecchi spettatori. â Dove vai?
Già : dove andavo? Il fatto è che non lo sapevo neppure io. Quasi non mi ero accorto di essermi alzato.
Ci accostammo ad un pilastro, nellâombra, cercando di non farci notare troppo. Lo spettacolo stava proseguendo con un duetto musicale, eseguito da Lelius e dalla signora, con viola e archimboldo.
â Dovete aiutarmi â dissi. Anche Lucibello ci aveva raggiunti.
â A fare cosa?
â A vederla!
â Chi?
â Lei... Phenissa.
â Sei impazzito?
Doveva essere così.
(4) LIA
â Insomma, perché vuoi vederla? â chiese Jues.
â Ã bella... â balbettai io.
â Ã innamorato â rise Lucibello.
Mi fermai. Detto così, faceva ridere.
Eravamo sotto il palcoscenico. Lame di luce penetravano fra le tavole, insieme alla musica. Nella luce danzavano innumerevoli particelle di polvere, sollevate dal nostro passaggio. Grosse travi incrociate reggevano l'assito del palco, perdendosi in una geometrica foresta. C'era a stento spazio per stare in piedi.
Anche gli altri due si fermarono. Scrutammo attorno a noi, e ormai non potevamo più avere dubbi: né il palcoscenico né tutta quella polvere erano stati portati lì dal carro. Il Cortile Segreto era un teatro. Guardandoci a vicenda, nelle strisce di luce e di buio, ci colse un brivido. Sentivamo di avere svelato un grande mistero. Questo fece tacere Lucibello, che altrimenti avrebbe continuato a prendermi in giro, e mi evitò di riflettere sulla domanda di Jues.
â Andiamo avanti! â dissi.
Le viscere del palcoscenico parevano senza fine. Ben presto ci trovammo in una zona dove nessuna lama di luce tagliava il buio, e anche la musica filtrava a fatica. Incontrammo ostacoli imprevisti e dolorosi. Infine, ci si parò dinanzi qualcosa che dovemmo aggirare a tentoni. E mentre lo facevamo, si mosse! Si sollevò cigolando. In alto, una botola si aprì e ci inondò di luce. La macchina scenica eruttò forme misteriose.
Qualcuno doveva pur azionarla, pensai. Rischiavamo di essere scoperti. Mi gettai a terra, perdendo di vista i miei due compagni. Il fragore della macchina era enorme, la luce bianchissima e implacabile. Arrancai fra i pali, in cerca di un riparo, e mi ero appena fermato quando vidi un grande sacco rigonfio calare verso di me. Rotolai via appena in tempo per evitare il contrappeso, che si afflosciò a terra fra una nuvola di polvere.
Mi sentivo soffocare. A pochi passi da me, un mastodontico ingranaggio di legno prese a girare con poderosa lentezza.
Non osavo chiamare i miei amici. Avevo paura a proseguire, e mi vergognavo a tornare. Dopo un tempo indefinito, tornò il silenzio sotto il palcoscenico. Da lontano, giungevano le voci e la musica di una nuova rappresentazione.
Decisi di proseguire a gattoni. Non ci volle molto: la foresta di travi terminò bruscamente. Sopra di me câerano le stelle. E davanti, il carro!
Mi arrestai, nascosto dietro lâultimo puntello. Che fare adesso? Dove poteva esser Phenissa? Fra le voci che giungevano dal palcoscenico non mi sembrava di udire la sua. E mi venne in mente una cosa: lei era stata lâunica, di tutta la compagnia, ad aver recitato una parte sola. Allora forse poteva essere nel carro...
Le gambe mi tremavano a tal punto che per un poâ non riuscii a muovermi. E quando mi misi a correre, inciampai contro non so cosa e finii rovinosamente per terra. Per farla breve: arrivai al carro, ci girai attorno, sbirciai attraverso ogni apertura. Non vidi niente.
Con un misto di delusione e di sollievo (cosa avrei fatto se lâavessi vista?), mi sedetti con la schiena appoggiata ad una ruota, ansimando e sentendomi molto stupido.
Una finestra si illuminò, davanti a me, di un chiarore giallo e tremolante. Andai a guardare: che avevo da perdere? Dovetti arrampicarmi, perché la finestra era posta in alto, e protetta da una grata di ferro. Scorsi un deposito: grande e cavernoso, con alte volte sorrette da pilastri che la luce fioca della candela non riusciva a raggiungere. Quelli che mi parvero attrezzi teatrali di ogni genere erano ammucchiati fino al soffitto. La fonte della luce era nascosta. Mi arrampicai sulla grata. Câera uno spazio vuoto, al centro del magazzino, ma ne potevo scorgere solo un angolo. Di tanto in tanto in quellâangolo compariva uno dei burattini, facendo capriole impossibili. Per una marionetta, sâintende. Era solo? No: sul pavimento si proiettava unâombra allungata e indecifrabile...
Scesi, trovai la porta, che mi sembrò enorme, lâaprii con grande cautela, mentre il battito del mio cuore soverchiava il fragore degli strumenti musicali che giungeva dal palcoscenico, e che sembrava preannunciare la fine dello spettacolo.
Scivolai dentro, richiusi la porta. La luce della candela, da quel punto, era quasi invisibile, e sembrava molto lontana; dovetti attendere qualche istante perché i miei occhi si abituassero al buio.
Un leviatano mi guardava da dietro la chiglia di una nave rovesciata. Avanzando, inciampai in un elmo piumato: per fortuna era di cartapesta, e il rumore non fu troppo forte. Accanto c'era una spada spezzata. Trovai poi un leone spelacchiato, un trono senza una gamba, un forziere spalancato. Il ritratto di una dama antica per un attimo mi fece balzare il cuore in gola, tanto sembrava vera nella penombra. Scavalcai alcune colonne cave fatte di legno, riverse a terra, aggirai a debita distanza uno scheletro penzolante, mi infilai sotto un carro trionfale... e fra i raggi dorati di una ruota scorsi finalmente la marionetta che danzava. Per qualche attimo attrasse tutta la mia attenzione: perché senza dubbio, non era manovrata da filo alcuno, né da altro congegno visibile. Pensai: forse è un nano, o una scimmietta travestita...
Ma perché guardavo quello sciocco burattino? Come se avessi paura ad alzare lo sguardo...
Allungando una mano, quasi avrei potuto toccarla. Ma muovere un solo muscolo pareva impresa più ardua che attraversare a nuoto un oceano.
Lo straniero si interruppe. Fissava le fiamme con lo sguardo perso e la fronte aggrottata, come se cercasse nella memoria qualcosa che gli sfuggiva.
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