Delio Zinoni

Lia


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una scala di pietra che diventava di legno all’ultimo piano, e finiva con un pianerottolo privo di porte, illuminato da due abbaini contrapposti, da cui entravano e uscivano le rondini. Uno dei muri terminava prima del culmine del tetto, ed era dotato di appigli sufficienti perché dei ragazzini come noi potessero arrampicarsi. Da lì, uno stretto pertugio dava accesso ad una soffitta piena di piccole aperture quadrate, con un minuscolo caminetto in un angolo: una piccionaia abbandonata. Era il nostro rifugio segreto, santuario ed osservatorio (dalle feritoie si scorgeva buona parte di Morraine). Avevamo costruito una panca e un tavolo. Un baule, lì da prima che giungessimo noi, conteneva le nostre cose più preziose: un coltello a serramanico, un rotolo di corda, un vecchio libro con figure araldiche, varie immagini di pietra intagliata, alcuni pezzi di vetro che facevamo passare per pietre di gran pregio, altri oggetti che non ricordo. Avevamo una lampada ad olio, e d’inverno, quando riuscivamo a procurarci la legna, accendevamo il caminetto.

      Ci sedemmo con grande solennità, ed io raccontai tutto quello che mi era successo quella sera nel Cortile Segreto, dopo che l’improvviso mettersi in moto della macchina scenica ci aveva separati. Non nascosi nulla ai miei amici... se non per attenuare un poco la paura provata.

      Ciò che più di tutto li affascinò, fu il laboratorio di alchimia (come io lo definii senz’altro), e il burattino. Io pensavo soprattutto a Lia, ma ero contento di non doverne parlare troppo. Sulla natura magica delle marionette, nessuno nutrì dubbio alcuno. Neppure Lucibello, che ci teneva a passare come il più disincantato di noi. Che Lelius fosse un mago, anche questo pareva cosa scontata; che Lia fosse soggetta ad un incantesimo, in mancanza di prove decisive suscitò qualche dubbio, ma nessuno volle contraddirmi fino in fondo su questo punto.

      Essendo sparito Lelius con il suo carro, la cosa che interessava di più i miei amici era il Cortile Segreto. E soprattutto quella torre, con la corda che forse ancora penzolava su qualche tetto, accessibile a qualunque ragazzino intraprendente!

      Erano tutti e due in piedi. Lucibello aveva aperto il baule, si era impadronito della corda e del coltello. Jues si stava arrampicando verso l’uscita.

      Ormai non c’era più modo di trattenerli. Partimmo alla ricerca della torre.

      L’impresa si rivelò ben presto più difficile del previsto. Per prima cosa, raggiungemmo la cima del Belvedere Dorato, uno dei punti di osservazioni più celebri di Morraine, in cima ad un’altura situata nell’angolo nord-est della città, un tempo mastio di una fortezza trasformata ormai in giardino pubblico: vi si svolgono fiere e spettacoli all’aperto; nei giorni festivi vi dà spettacolo la banda cittadina, sotto gli alberi secolari bancarelle vendono dolci, frittelle, bibite; di sera vi passeggiano gli innamorati. Scrutammo per un’ora buona il panorama, ma non riuscii ad individuare la torre. Molte erano più o meno quadrate, coperte da un tetto, ma nessuna mostrava tracce di corde. Del resto, non mi ero soffermato troppo ad osservarla dall’esterno, mentre fuggivo, e la luce della luna era ingannevole...

      Decidemmo di cercare un punto di osservazione più vicino, anche se più basso. Ne provammo vari: la Torre dell’Unicorno per prima, perché mi pareva di ricordarne esattamente la posizione, rispetto al Cortile Segreto: nuova perdita di tempo. Poi, il Panspherion, con uguale insuccesso. I custodi della Torre degli Sguardi ci costrinsero a sloggiare dopo qualche minuto; la Terrazza dei Profumi, oltre ai suoi famosi fiori, possedeva dei cannocchiali: lunghi tubi in ottone dalle lenti imperfette; inutili alla nostra bisogna; e poi l’angolazione era probabilmente sbagliata.

      Nel frattempo era giunto il tramonto, e la luce incerta non permetteva di proseguire le ricerche.

      La sera mi era stato tolto il permesso di uscire. Forse fra un paio di settimane... e nel frattempo la luna sarebbe stata nuova.

      Il giorno successivo scegliemmo un approccio ancora più ravvicinato: battemmo i cortili circostanti a quello Segreto. Ma erano tutti piuttosto stretti, le case alte, e la torre ci si negò anche questa volta. Provammo varie scale, ma tutte si interrompevano prima di raggiungere i tetti, come se formassero una prima linea difensiva intorno al Cortile stesso.

      Il terzo giorno decidemmo di provare la via più ovvia, ma che avevamo fino ad allora rimandato, per le ragioni che capirete subito: il cortile in cui ero sceso quella notte.

      Era un cortile, ma aveva un nome singolare per Morraine: si chiamava piazza: Piazza dei Miracoli.

      Vi sono alcuni luoghi a Morraine che si fregiano di indicazioni tipiche di tutte le normali città: vie, piazze, viali, vicoli. I più ritengono che ciò dimostri semplicemente che un tempo Morraine era stata una città come le altre, cresciuta poi dentro se stessa, occupando tutti gli spazi disponibili. Portano a riprova di questo le tracce di giunture fra edifici un tempo separati, che mostrano materiali e tecniche costruttive diverse, e appaiono distribuite secondo tracciati più o meno rettilinei. Altri oppongono spiegazioni più fantasiose, di cui riferirò solo una: che Morraine sia in realtà un solo, gigantesco edificio (per la precisione un tempio), unico sopravvissuto di una città immensa che un tempo occupava tutta la pianura fino alle pendici dei monti Yiril.

      Sia come sia, la Piazza dei Miracoli (anche sull’origine di questo nome esistono varie ipotesi), era uno spazio di forma più o meno ellittica, con due fontane ornate di statue mutile, usate comunemente per lavare la biancheria, un acciottolato irregolare, pieno di erbacce, nessun albero, nessun porticato, ma numerosi androni. La facciate delle case vantavano tracce di anteriori, ciclopiche costruzioni, sotto forma di pietre squadrate alte due braccia e larghe quattro; innumerevoli balconi disposti in apparente disordine; file di panni stesi ad asciugare.

      Entrando mi resi conto di due cose: la prima, che non ero in grado di riconoscere l’androne dal quale ero sbucato, quella notte; la seconda: che un gruppo di ragazzini, fra cui alcuni più grandi di noi, ci stavano guardando con aria poco amichevole. Iniziammo un cauto circuito del cortile. Gli altri interruppero il loro gioco, che consisteva nel gettate dei sassi contro un muro e farli rimbalzare il più vicino possibile ad una linea segnata in terra con il gesso, e cominciarono a seguirci, dapprima con lo sguardo e poi con i piedi. Noi tre ci guardammo, scrutammo gli androni. Nessuno sembrava promettente. Affrettammo il passo. Arrivammo ad un quarto di giro. Gli altri erano vicini, il loro aspetto sempre meno rassicurante: sporchi, gli abiti rappezzati, i più piccoli a piedi nudi. Tenevano ancor in mano i sassi con cui avevano giocato.

      â€“ La fontana – disse Lucibello, e senza aspettare risposta, partì di corsa. Lo seguimmo senza esitare. In effetti, una delle due fontane era vicinissima, e ci arrivammo nel giro di qualche battito di cuore, prendendo alla sprovvista i nostri avversari.

      Le donne che stavano lavando si misero a ridere. Avevano le gonne sollevate, che lasciavano scoperte gambe grassocce e rosee, magre e pelose, e ogni via di mezzo. Cominciarono a spruzzarci di acqua insaponata, e Jues scivolò sulle pietre bagnate, finendo disteso per terra. Una delle lavandaie lo sollevò di peso, e con una pacca sul sedere lo spedì nella direzione della porta opposta a quella da cui eravamo entrati. Un’altra gridò ai ragazzini della Piazza dei Miracoli di lasciarci in pace. Io e Lucibello seguimmo Jues senza bisogno di incoraggiamenti.

      In breve: trascorremmo l’intera estate a cercare la torre del Cortile Segreto. Provammo ogni tetto, ogni campanile, ogni terrazza, ogni torre accessibile. Penetrammo in ogni androne (diciamo: quasi ogni androne), salimmo ogni scala, uscimmo da ogni abbaino. I proprietari dei tetti avevano ormai imparato a riconoscerci, e si lamentarono con i nostri genitori. Fummo puniti; tornammo liberi; ricominciammo da capo. In piena estate, ci aggiravamo sui tetti nelle prime ore del pomeriggio, quando il sole a picco teneva tutti lontani dalle terrazze, e le tegole bruciavano i nostri piedi nudi.

      Provammo anche l'intrico dei corridoi interni, dopo essere penetrati negli edifici più vicini al cortile segreto. Come in un labirinto, ci perdemo irrimediabilmente in un intrico di di passaggi spesso ciechi.

      Avvistammo la Torre varie volte. Ma senza alcuna corda che ne penzolasse. O era stata ritirata, o nessuna di esse era la vera Torre.

      Alla fine, diventò una sorta di miraggio, un fuoco fatuo, un fantasma, un sogno. Ci aiutava