non si trattava solo di una fessura, ma di una finestrella ovale, protetta da una grata a croce. Mi fermai un attimo a riflettere. Doveva corrispondere alla medesima stanza a cui dava accesso la porta che avevo incontrato prima. Una stanza attorno a cui giravano le scale. Nel cuore della torre.
Mi avvicinai. E vidi: un soffitto a volte ogivali. Lâapertura attraversava orizzontalmente una delle volte, e ben poco si vedeva della stanza sottostante. Ma abbastanza per farmi trattenere il respiro. Dunque: uno scaffale altissimo, pieno di vasi in vetro e ceramica; quelli in ceramica con disegni e scritte in caratteri arcaici; quelli di vetro che lasciavano intravedere... non sapevo bene cosa, ma parevano bizzarri animali sospesi in un liquido trasparente. Appeso al soffitto, uno scheletro di mirabili dimensioni, con la coda dotata di aculei e mascelle in grado di stritolare un bue. Il collo di un alambicco, che saliva a spirale fin quasi alla finestrella. Un mantice gigantesco, appoggiato ad una parete. Lâangolo di un tavolo ingombro di pergamene, libri, strumenti di ottone e vetro.
Un uomo passò davanti al tavolo. Un giovane: corti ricci biondi, carnagione pallida, lineamenti affilati. Le labbra strette, in unâespressione malinconica e sprezzante insieme. Indossava pantaloni neri, aderenti, una camicia bianca, dalle maniche a sbuffo, farsetto viola, alti stivali neri.
Gettò qualcosa sul tavolo, con un gesto brusco. Era uno dei burattini. Senza il costume blu con gli alamari e i bottoni dâoro, sembrava un bambino. Per un attimo provai una sensazione di orrore indicibile. Era davvero un bambino! Guardai meglio. No, non poteva essere. La distanza, la luce, lâangolazione mi avevano tratto in inganno. Era proprio un burattino: grassoccio, gambe e braccia corte, faccia dai lineamenti esagerati, privo di sesso, dalla pelle biancastra.
Lâuomo parlò. Aveva una voce secca, un poâ troppo acuta, con un accento vagamente straniero. â Non câè niente da fare â disse. Sembrava infastidito dalla cosa. Unâaltra figura entrò nella fetta di stanza visibile.
Era Lelius. Si chinò sul burattino e lo toccò, con un gesto quasi di affetto. Il burattino si mosse. Tese un braccio, agitò le gambe in un patetico tentativo di eseguire una capriola.
â Solo lei potrebbe... â cominciò il giovane biondo. Lelius scosse la testa, e il giovane alzò le spalle.
Poi Lelius sparì alla vista, tornò con il costume, rivestì con cura la marionetta. Senza aspettare che avesse finito, il giovane si avviò verso la porta, impaziente. Giunto sulla soglia si girò e disse: â Tu non vieni?
Pensavo si riferisse a Lelius. Invece una terza figura fece la sua apparizione, invisibile fin'ora perché si era trovata proprio sotto la finestrella. E perciò la vidi solo di spalle. Ma era inequivocabilmente una donna, e apparentemente giovane: lunghi capelli lisci e biondi, quasi bianchi, trattenuti da una coroncina con delle pietruzze scintillanti; alta, movimenti flessuosi. Una lunga gonna di velluto verde e corpetto uguale su una camicia bianca. Si arrestò un momento accanto al corpo del burattino. Si chinò su di lui, come per parlargli o per... baciarlo. Poi raggiunse l'uomo sulla porta. Che l'aprì per farla passare e...
Sentii la porta aprirsi, e contemporaneamente il rumore mi giunse anche dalle scale. Per un attimo rimasi paralizzato dal terrore. Poi sentii i passi scendere. Poco dopo una chiave girare in una delle porte del deposito. Lelius, intanto, aveva terminato la vestizione, e preso in braccio la marionetta. Questa, con un movimento improvviso, lâabbracciò. E di nuovo, per un istante, mi parve orribilmente simile a un bambino. Poi anche Lelius uscì, portando con sé la lampada.
Io raggiunsi la sommità della torre con passo ancora più felpato. Non sapevo cosa pensare della scena a cui avevo assistito, ma ero certo che quella stanza fosse un laboratorio alchemico. Il Cortile Segreto si rivelava sempre più colmo di misteri.
Calarmi sui tetti non fu molto difficile. à il genere di esercizio che i genitori di Morraine cercano in ogni modo di scoraggiare, e che i ragazzi imparano prestissimo. Il difficile cominciò dopo. Da che parte dirigermi lo sapevo, ma sui tetti di Morraine le linee rette hanno scarso significato. Anche perché i proprietari dei tetti non amano che qualcuno calpesti le loro tegole, magari le rompa, e frappongono ogni genere di ostacoli ai trasgressori. Ostacoli che rendono i tetti di Morraine oltremodo vari e pittoreschi, e mai su uno stesso livello: inferriate e muretti, siepi degne di giardini pensili e punte metalliche sporgenti. Ostacoli che i bambini di Morraine imparano a superare in tenera età (i tetti sono costruiti in maniera tale che è molto difficile cadere), ma non fra le ombre ingannevoli della luna. Queste sono riservate ai ladri e agli amanti, e a me procurarono non poche escoriazioni.
Trovai infine un lucernario aperto, una soffitta abbandonata, una scala scricchiolante... e alla fine di questa uno dei cortili più malfamati della città , in cui intravidi ombre di donne e di uomini intente ad enigmatici commerci.
Da lì, arrivai a casa di corsa.
Trovai mio padre pallido come non lâavevo mai visto. Mia nonna e le zie parlavano tutte insieme, frastornandomi le orecchie. Mio zio non câera: era uscito a cercarmi. Quanto a mia madre, corse ad abbracciarmi, in lacrime, salvandomi così da una immediata e dolorosa punizione.
Mia sorella, ancora alzata, mi guardava con grandi occhi pieni di stupore e di una certa invidia.
(6) ESTATE
Le successive notizie su Lia mi giunsero sotto forma di un foglio appallottolato. Me lo portò mia sorella Denize tre giorni dopo, insieme al pranzo. Lâaveva appallottolato, con precauzione eccessiva, per passarmelo di nascosto. Diceva:
âIl carro di Lelius è partito questa mattina, allâalba. Non si sa per dove. Nessuno di noi è più riuscito ad entrare.â
Firmato: Jues.
Quanto a me, negli ultimi tre giorni ero rimasto rinchiuso in una stanza priva di finestre, larga tre passi per cinque, con un letto, una sedia, un tavolo, innumerevoli cose vecchie, e mia sorella che mi portava da mangiare. Anche questa stanza aveva almeno due porte: una era quella da cui ero entrato. Lâaltra, un buco che precipitava verso le cloache. Non era abbastanza largo da indurmi a prenderlo in considerazione come via di fuga. Di notte faticavo a dormire, e ascoltavo il lavorio dei tarli in una vecchia trave del soffitto. Mi faceva pensare all'inenarrabile trascorrere del tempo.
La punizione scadeva il giorno dopo. Dovevo ritenermi fortunato se non era stata più lunga: la mia reticenza sui particolari della serata nel Cortile Segreto, e la confusione sospetta dei resoconti forniti da Jues e Lucibello non erano stati gran che adatti a suscitare clemenza.
Ma così: addio Lia.
In compenso, sul tavolo câera un libro con i Canti di Pridery, il mitico fondatore di Morraine. Obbligo: impararli a memoria. Ricordo ancora alcuni frammenti:
âPer sei giorni, per sei notti
cavalcò nella steppa.
Volavano i corvi sulla sua testa
correvano i lupi sulle sue tracce.
Si fermò in un campo di neve.
Due gocce di sangue caddero
sul candido manto.
Due giorni rimase a guardarle:
le guance della bella Yrine.â
Io non avevo a disposizione un campo di neve, ma il viso di Lia affiorava dal buio della stanza, ogni volta che spegnevo la lampada. Mi ossessionava. Mi perseguitava. Mi incantava. La prima notte non dormii. La seconda cercai di fuggire: fu un tentativo maldestro e rumoroso, bloccato sul nascere con mio grave scorno. La terza crollai in un sonno inquieto, pieno di sogni sfuggenti. Quando arrivò il biglietto di Jues ero troppo stanco per disperarmi.
Il giorno dopo venni rimesso in libertà . I miei due