Delio Zinoni

Lia


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      Da uno scomparto della cassa, Baran estrasse una boccetta di inchiostro nero e un pennellino.

      â€“ Tu sai scrivere – mi disse. – Il nome della tragedia lo conosci. Questo posto si chiama Foro delle Capre. Un nome poco dignitoso, ma quella di adattarsi è la prima virtù di chi esercita la nostra difficile arte. – Prese la carta del Secondo Supervisore, eccetera. – Questa è la licenza per appendere i manifesti. I luoghi sono esattamente indicati, ed è inutile che vi raccomandi il massimo scrupolo. Qualsiasi multa verrà sottratta dal vostro stipendio. – Consegnò la carta a Dumpy Dum, e raggiunse gli altri dietro il tendone.

      â€“ Quale stipendio? – chiesi a Dumpy Dum.

      Il nano mi strizzò un occhio. – Un modo di dire.

      Di dire cosa? Ma non feci altre domande. Presi inchiostro e pennello.

      â€“ Che caratteri devo usare? – chiesi stendendo i manifesti sul palco.

      Dumpy Dum si grattò la testa. – Di solito noi usiamo un normale stampatello maiuscolo. Tu conosci qualcosa di meglio?

      â€“ A Mor... – Dumpy Dum mi mise una mano sulla bocca, e con l’altra mi tirò un orecchio. – ... Nei miei viaggi – mi corressi – ho appreso i dodici stili canonici: semplice, corsivo, floreale, uncinato, quadrato, atrabantico minore e maggiore...

      Dumpy Dum alzò le braccia. – Basta, basta! Scegli il più adatto secondo il tuo giudizio.

      Meditai un attimo. – Io opterei per un quadrato: è chiaro, leggibile da lontano... Magari leggermente uncinato nelle terminazioni... – Intinsi il pennello nell’inchiostro e mi misi senz’altro al lavoro, mentre Dumpy Dum mi guardava da sopra la spalla.

      Ero giunto a metà dei manifesti, quando Gost Baran sporse la testa dal tendone. – Come? Ancora qui? Ad ogni momento che trascorre, chissà quanti cittadini di Larissa passano per la strada senza vedere i nostri manifesti! E chi può dire quanti di costoro sarebbero altrimenti venuti al nostro spettacolo?

      Dumpy Dum gli fece cenno con la mano di avvicinarsi. Gost Baran esaminò i manifesti già completati. – Ah... – disse. – Certo, un lavoro ben fatto richiede tempo, e l’eleganza della forma è motivo di attrazione. Ma nelle cose umane, e in particolare in quelle del teatro, ottima cosa è contemperare varie esigenze. In una parola: affrettati. – Tornò dietro il tendone, e Dumpy Dum mi strizzò un occhio.

      Completai il lavoro, arrotolai i manifesti e me li infilai sotto un braccio. Dumpy Dum prese pennello e colla. – Avviamoci! – disse il nano, esaminando la lista.

      â€“ Sai dove si trovano questi posti?

      â€“ Quasi tutti. Per gli altri, chiederemo.

      â€“ Sei già stato a Larissa?

      â€“ Molte volte... Che stai aspettando?

      â€“ Pensavo... tutte quelle regole di etichetta, non sono sicuro di ricordarle.

      Dumpy Dum rise. – Non è il caso di preoccuparsi. Un ragazzo e un nano: nessuno baderà a noi. Siamo troppo piccoli! – Stavo per protestare: io non sono piccolo! Ho già indossato la mia prima maschera alla Festa di Morraine! Poi pensai: questa non è Morraine. Io non sono nato a Morraine. Non ho mai abitato a Morraine.

      Imboccammo una strada. Alzai lo sguardo, e quasi incespicai. Dumpy Dum mi afferrò per un braccio. – Attento! Che ti prende?

      La strada era lunga e dritta. In fondo, si scorgevano le montagne. Le case formavano un imbuto in cui si riversava la luce del sole. In alto, i tetti si inclinavano gli uni verso gli altri. Mi aveva preso una specie di vertigine a rovescio: come se il cielo minacciasse di risucchiarmi in alto. Voltai gli occhi da una parte: uno stretto vicolo, le grondaie che si sovrapponevano, e a metà altezza un arco che doveva servire a far sì che le due case non rovinassero l’una sull’altra.

      Chiusi gli occhi. Abbassai la testa. Li riaprii e li tenni fissi sul selciato di ciottoli.

      â€“ Andiamo – dissi. Da quel momento mi concentrai sui particolari: gli abiti dei passanti, che erano in genere più fantasiosi, ma spesso anche più stracciati, di quelli abituali a Morraine; le grate delle cantine, che avevano quasi tutte una forma ovale; i rifiuti abbandonati agli angoli delle strade, fra cui frugavano i cani (ci sono pochissimi cani a Morraine: a nessuno piace vedere il proprio cortile sporco, o attraversare androni puzzolenti). Soprattutto osservavo le porte e i portoni: il tipo di legno e le finiture, la grandezza delle teste dei chiodi, la forma delle cornici e degli intagli. La lavorazione non mi sembrava particolarmente curata. Avevo aiutato mio padre a fabbricare o a riparare molti portoni, nella nostra bottega. Quasi tutti i cortili hanno uno stile proprio; c’era un vecchio artigiano, nel Cortile del Nano, che sapeva dire il nome del cortile dopo una sola occhiata ad un portone che gli fosse stato portato per riparare. Si chiamava Arsinon, e aveva delle mani straordinariamente deformate dal lavoro e dall’artrite, ma in qualche modo abilissime. Quando eravamo bambini, ci nascondevamo nella sua bottega, e lui faceva finta di non averci visto...

      Basta, mi dissi. Non devo pensare a Morraine. Basta con la nostalgia. Guardati intorno, Iko... no: Arquin. Questa è la tua prima città.

      Alzai la testa per guardarmi intorno, e in quel momento Dumpy Dum si fermò. – Ecco: questo è il primo. – Un muro ricoperto da strati di manifesti, nessuno dall’aspetto molto nuovo. Avvisi di spettacoli, annunci di fiere, propaganda politica (questa molto stracciata).

      â€“ Saltami sulle spalle – disse Dumpy Dum. Obbedii. Aveva i muscoli duri come pietra. Strappai pezzi di manifesti non bene aderenti, poi il nano mi passò la cola e attaccai il nostro.

      Quando fui sceso, Dumpy Dum cominciò a raccogliere i pezzi caduti. – Aiutami – disse.

      â€“ Non mi sembra che qui badino molto alla pulizia – osservai.

      â€“ Loro no, ma agli stranieri capita di dover pagare pesanti multe per una disattenzione.

      Mi misi a raccogliere con lena. Arrivato all’ultimo pezzo, mi fermai. C’erano solo sei lettere leggibili, a caratteri rossi: IUS ABR.

      â€“ Che ti succede? – chiese il mio compagno.

      Gli mostrai il frammento. – Potrebbe essere Lelius Abramus? – Dumpy Dum sogghignò. – Un Lelius Abramus a corto di soldi potrebbe anche fermarsi a recitare a Larissa. Non è impossibile. – Ci incamminammo.

      E così aveva ammesso di conoscerlo, almeno di nome.

      â€“ Questa è la strada principale – disse poco dopo Dumpy Dum.

      â€“ Come si chiama?

      â€“ Campi Elisi.

      â€“ Che nome sarebbe?

      Dumpy Dum alzò le spalle. – Non lo so.

      Sui Campi Elisi la gente vestiva con particolare sfarzo. C’erano molti carri. “Carrozze”, mi corresse Dumpy Dum. Servivano ai signori per passeggiare. A Morraine non c’erano carrozze: a chi poteva venire in mente di passeggiare su un carro per un cortile?

      Avevamo gettato i manifesti stracciati in un vicolo dove nessuno poteva vederci, ma io avevo conservato in una tasca il frammento con IUS ABR. Come se potesse servirmi a qualcosa. Avevo incollato altri sette manifesti senza trovare fra gli strati precedenti alcuna reliquia di Lelius. Ormai mi ero abituato alle fenditure vertiginose fra le case, e riuscivo a guardarmi intorno.

      Sui Campi Elisi il passeggio assomigliava a un balletto: signori con una piuma di fagiano sul cappello e mantello rosso, donne con le gonne listate di carminio, paggi in livree con gli alamari dorati, servette con cappelli di paglia, dignitari in stivali di vari colori, alti fino al ginocchio. Vidi un signore con il cappello