Emanuele Cerquiglini

Un Gelato Per Henry


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Brown aveva prenotato da Erminia, un ristorante italiano nell’Upper East Side, che da qualche tempo era finito nella top ten della Eyewitness travel.

      Barbara era di origine italiana e Robert sapeva che avrebbe apprezzato quella cucina, anche se le sue origini risalivano solo alla sua nonna materna e lei non era mai stata nel “bel paese”.

      

      

      Nel Maine, Robert le avrebbe chiesto di sposarlo e voleva che fosse tutto perfetto. Amava quella donna e voleva che lei diventasse sua moglie. Lo aveva confidato anche a suo padre, proprio quella mattina, in una telefonata prima di uscire dall’ufficio e lui gli aveva risposto che questa era la più grande cretinata che avesse sentito dire da suo figlio in tutta la sua vita: “Hai retto alla grande fino adesso e ora vuoi incastrarti figliolo?” Il ricordo delle parole di suo padre fece ridere Robert, intento da qualche minuto a passarsi il filo interdentale davanti lo specchio del bagno. Robert aveva un’ossessione per i denti, se li lavava almeno dieci volte al giorno e si passava il filo interdentale anche se mangiava un paio di olive per accompagnare un aperitivo. Aveva sempre con se la sua fedele scatolina bianca del filo interdentale. Da adolescente aveva perso tre denti sbattendo la faccia a terra dopo essere volato dalla bici: aveva preso male una curva alla fine di una ripida discesa condotta a velocità folle. Si era anche rotto un braccio, il naso e aveva escoriazioni profonde su entrambe le ginocchia. Era rimasto vivo fortunatamente, ma guardarsi senza denti per tre mesi, fu per lui un trauma senza eguali. Aveva perso un canino e i premolari, e per uno che della sua risata faceva un must per rimorchiare le ragazze, quello era stato un vero e proprio dramma esistenziale, che sarebbe potuto diventare generazionale, considerando che era stato uno dei tre ragazzi più belli del college. Poteva farseli rimettere prima, ma il padre lo volle punire per far capire al figlio che tutti sono fatti di carne e ossa e che non esistono i supereroi. La lezione gli servì, perché Robert di guai in quegli anni ne aveva combinati molti, ma dopo quell'esperienza il ragazzo mise la testa sulle spalle, fino a divenire Robert Brown: il titolare di una delle migliori ditte di ristrutturazione della città di New York, dove poteva contare sul miglior carpentiere in circolazione: suo fratello James. Quei due, insieme alla loro squadra, erano in grado di entrare in un appartamento fatiscente e farlo diventare di lusso in poche settimane.

      Capitolo 7

      

      

      La signorina Anderson, con quella sua voce stridula e quello sguardo da avvoltoio, faceva sempre sudare freddo Henry e anche se non parlava e si limitava solo a guardarlo, l’espressione della maestra di matematica sembrava dire sempre la stessa cosa: “Non ci arriverai agli esami, te lo posso assicurare”.

      La primavera era arrivata da tempo e alla Northfield Elementary School, tutti respiravano già l’aria dell’estate. A confermarlo era quella fastidiosa gara d’inseguimento circolare tra due mosche intente all’accoppiamento. Con la mano destra Henry cacciò le mosche lontano dalla sua faccia, verso il centro dell’aula, dove la classe attendeva che la signorina Anderson ritirasse quel compito irrisolvibile per Henry, che invece dei numeri amava le lettere e con quelle ci sapeva fare.

      Lo squillo della sveglia sulla scrivania della maestra, era il segnale che faceva iniziare il conto alla rovescia di sessanta secondi, prima che gli alunni dovessero posare le loro penne sul banco.

      Â«Sessanta, cinquantanove, cinquantotto, cinquantasette, cinquantasei…»

      Si divertiva quella stronza a contare all’indietro fino allo zero. Quel sorrisetto la tradiva e sembrava diventare eccitato quando incrociava lo sguardo di qualche alunno in difficoltà, che le implorava pietosamente più tempo.

      Quando la maestra era arrivata a contare il numero trenta, Henry aveva già posato la sua penna. Guardava impassibile il foglio, dove oltre un quadrato e qualche moltiplicazione esatta, per il resto non aveva concluso molto, soprattutto con le divisioni: roba impossibile oltre certe cifre.

      Joanna disse ad alta voce che le sarebbe bastato solo un minuto in più.

      Â«Il tempo non mente mai! Undici, dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno… Zerooooo!»

      La maestra si alzò dalla sedia, superò la cattedra e andò a ritirare per primo il compito di Joanna, che si buttò con le braccia sul foglio protocollo a quadretti, nel disperato quanto inutile tentativo di trattenerlo dalla presa della mano della signorina Anderson.

      Â«Voglio vedere tutte le penne sui banchi. Chiaro?». Disse la maestra sventolando in aria il compito di Joanna.

      Joanna Longowa era di origine polacca. Era la più carina della classe con i suoi lunghi capelli biondi, gli occhi blu e quella carnagione chiara che risaltava il rosa delle sue labbra. A Henry era sempre piaciuta, fin dal terzo anno, quando Joanna arrivò nella sua classe dopo essersi trasferita con la sua famiglia nel New Jersey. Era brava in tutte le materie e se aveva un difetto era un eccesso di perfezionismo: Henry era sicuro che lei avesse già finito perfettamente il suo compito e risolto tutti i calcoli e anche il problema, ma che forse voleva consegnarlo con tanto di cornicette per abbellire il foglio protocollo.

      Â«Cos’è questa roba Henry Lewis?»

      Â«Ãˆ il mio compito…» Rispose timidamente Henry alla maestra. Qualche ragazzino non riuscì a trattenere una risata. Tutti sapevano che Henry era una capra in matematica, ma nessuno aveva il coraggio di prenderlo troppo in giro davanti alla signorina Anderson, perché altrimenti lei avrebbe fatto volare note come chicchi di riso ad un matrimonio o peggio, avrebbe fatto saltare la ricreazione per una settimana all’intera classe.

      Â«Non deve volare una mosca. Chiaro?» Urlò la maestra, mentre levando il braccio in aria e stringendo improvvisamente le dita della mano in pungo, afferrò le due malcapitate mosche che cercavano di accoppiarsi. Poi si diresse verso la finestra aperta e lanciò fuori gli insetti tramortiti, come fossero due molliche di pane da gettare ai passeri.

      

      

      Quando la signorina Anderson finì il suo giro tra i banchi ritirando tutti i compiti, regnava il silenzio più assoluto e solo la campanella che segnava la fine della lezione riportò la classe al normale trambusto.

      Capitolo 8

      

      

      Ted Burton lasciò l’officina di Jim alla guida del suo vecchio Wrangler intorno a mezzogiorno e in neanche un’ora aveva raggiunto Jersey City per andare a passare qualche ora con gli amici della Firearms Academy. All’ingresso incontrò come al solito Leland Wright, che se ne stava seduto immobile al sole con la naturalezza di una lucertola, senza neanche sembrare accaldato. Leland aveva superato abbondantemente i settanta, ma quella pellaccia secca e il suo look lo facevano sembrare più giovane di quindici anni. Portava un berretto dei marines sui capelli bianchi cortissimi, una maglietta blu con scritto “la mia ragazza è il mio fucile”, pantaloni mimetici a scala di grigi e scarpe tattiche nere.

      Â«Pensavo che non venissi più!» Disse Leland quando gli si presentò davanti Ted.

      Â«Figurati se rinunciavo a sfidarti con l’M4», rispose Burton con il sorriso di un ragazzino.

      Leland iniziò a ridere guardando l’amico e si alzò dalla sedia di plastica.

      Â«Vecchio figlio di puttana… Aspetta che chiedo a Charlie di sostituirmi alla porta.» Rispose Leland prendendo la radio dalla tasca laterale della mimetica per contattare l’amico.

      Dentro la Firearms Academy non c’era la ressa del week end e si sarebbe potuto sparare al poligono senza fare troppa fila. La faccia di Wayne