Guido Pagliarino

Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo


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VII

      Eravamo ormai sul ritorno, quasi al fondo della Brooklyn-Queens Expwy, lungo i moli e verso i ponti.

      "…e adesso, dove vogliamo andare?" m’aveva chiesto Norma.

      "A mangiare qualcosa di buono."

      "A mangiare? T'è venuta fame?!"

      "Non ho toccato quasi nulla." Avevo avuto un'ispirazione. Prendendola alla lontana, avevo azzardato: "Se tu sai di qualche cucina disponibile, potrei preparare io qualcosina d'accettabilmente gustabile."

      "Sai cucinare? e ti piace?" La sua voce sapeva di sorpresa e divertimento: "Io lo odio."

      "A me piace e, almeno, so quel che mangio; ma dove la troviamo una cucina?" Le avevo sfiorato il braccio in una brevissima carezza.

      "Da me", aveva sorriso.

      Era un piccolo alloggio nella Trentaquattresima, presso l'Herald Square, a Manhattan, al pianterreno d'una casa antica appena ridipinta. Non era distante dall’albergo. Un bell'appartamento: dall'atrio-salotto, abbastanza ampio, con mobili in piuma di mogano stile inglese '800 e due brevi divani moderni contrapposti, poco più che poltrone, s'intravedeva a sinistra, per l'uscio lasciato aperto, il canterano della camera da letto, Luigi XV; l'ingresso s'apriva al fondo, per una porta ad arco, su di una bella cucina, tutta in legno di noce. Il bagno doveva essere attiguo alla camera da letto.

      "Abito in affitto", aveva precisato Norma, "mobili compresi. Fino al mese scorso vivevo nell'attico di mio marito, qui vicino. Arnold vi ha pure l'atelier."

      "L'atelier? Cos'è, un sarto?"

      "Ma no", aveva riso, "è Arnold Miniver, il pittore."

      Non l'avevo mai sentito nominare: "È famoso?"

      "Famosissimo!" s’era stupita: "Ha venduto anche in Italia; ma non lo conoscevi?!"

      "Francamente no." L'avevo fatta corta: "Posso andare in cucina?"

      "Oh... certo, siamo qui apposta, no?" L'espressione indicava un ben diverso pensiero. Per la verità avevo pensato, a un certo punto, d'abbandonare l'idea del pranzo e volgermi subito al corteggiamento, ma la fame c'era e, dopotutto, quel rimandare poteva essere una buona tattica per aumentare il suo interesse per me; a patto ch'io le mostrassi subito il mio. Nel superarla, le avevo fatto scorrere una lievissima carezza sulla schiena.

      In dispensa non aveva molto. Avevo improvvisato con quel poco, carne cruda affettata sottile, cetriolini sotto aceto, yogurt, prezzemolo surgelato, pomodori; e m’ero accinto a preparare quattro deliziose scaloppine. Avevo tritato finemente i cetriolini mescolandoli poi allo yogurt in un tazzone, con un poco di sale e un po' di prezzemolo che avevo prima scongelato con un momento di forno. Avevo lasciato riposare. Intanto avevo messo al fuoco una spessa padella antiaderente, su vivace fiamma, posandovi un pezzo di carta bianca. Quand’era scurita nei punti a contatto col fondo, avevo levato la carta e disteso le carni nella padella. Sempre su fiamma altina, avevo cotto per un quattro minuti, due per ogni faccia delle bistecchine, finché s’era formata su entrambe una crosticina bruna. Avevo salato e servito in due piatti, coprendo la carne con la salsa fredda. Qualche pomodoro a fette per contorno e guarnizione. Una bontà velocissima! Norma, seppure a dieta, aveva mangiato intera la sua porzione, lietamente. Sì, anche le donne possono conquistarsi così, prendendole per la gola.

      Non sapevo che, forse proprio in quel momento, qualcun altro si stava preparando a prendere per la gola me, con una bevanda; e con ben diverso obiettivo.

      

      S’era rimasti in intimità fin quasi all'ora dell'aperitivo.

      Per il mio animo non sarebbe stata una semplice avventura di viaggio. Nel tornare in albergo con Norma, avevo cominciato a comprenderlo.

      Avevo già fatto la doccia da lei e al Plaza m’ero cambiato in un momento; ma eravamo giunti lo stesso dal Lines con mezz'ora di ritardo, per ultimi: "Va bene così", m’aveva sussurrato lei, appena prima d’entrare, nel vedere che guardavo l’orologio, "sei l'ospite d'onore."

      Forse non andava tanto bene al padron di casa che, non appena il cameriere, un mulatto sulla sessantina d'aspetto fragile, ci aveva introdotti, s’era lasciato scappare un sorridente "Oh, finalmente!" ma subito s’era corretto: "Eravamo tutti impazienti di conoscerla di persona, signor Velli!" e, dopo avermi stretto la mano, volgendosi ai presenti m’aveva applaudito. Gli altri s'erano uniti.

      L'editore appariva sulla cinquantina, capelli folti sale e pepe tenuti incolti, media altezza e magrissimo; ma forte: la stretta di mano era stata potente.

      Eravamo una ventina. Gli ospiti più importanti, come avevo capito dall'atteggiamento di maggior rispetto del Lines e meglio avrei saputo da Norma, erano otto: i fratelli Albert ed Elizabeth Valente, entrambi sulla quarantina, miliardari in dollari, lui patron del premio intestato al defunto padre poeta dilettante ch'era vissuto per decenni in fama di padrino mafioso ma, quand'era morto, aveva ormai conquistato l'abito dell'onesto finanziere; Peter Capponi, grosso importatore quarantenne, e sua moglie Angela, sulla trentina, unica donna presente tutta ingioiellata; un certo Vito Valloni, grasso barbuto di pelo bianco con in testa una canuta parrucca a istrice che lo rendeva ridicolo, uomo di media altezza, oltre i sessanta, proprietario di gran magazzini e negozi, emittenti televisive e giornali in vari States; il taciturno generale Reginald Huppert, capo della Polizia di New York, con la moglie Liza, assai più giovane di lui, sui trentacinque, sorellastra del Lines: molto bella; Anne Montgomery, vedova, la più ricca donna d'America, sui cinquantacinque; il di lei figlio Donald, d'aspetto insignificante, non molto alto, bruno di capelli, che dimostrava una trentina d’anni; e il loro amministratore e consulente finanziario John Crispy, sessantenne.

      "Strano idealista, quel Donald Montgomery", m’aveva detto Norma dopo ch'eravamo usciti noi soli sul terrazzo: "È l'erede d'una colossale fortuna ma, dopo la laurea in legge che la madre gli fece prendere perché meglio curasse i loro interessi, è entrato come funzionario nell'FBI: incredibile, vero?"

      "Poteva forse scegliere meglio."

      "È quel che penso anch'io. Comunque gli affari di famiglia continuano a essere totalmente diretti, dietro percentuale, da John Crispy". L’aveva indicato con un breve movimento del capo: in quel momento l’uomo, seduto in un angolo appena all'interno, era intento a sorbirsi tutto solo un intruglio e a mangiarsi olivette: "Non farti ingannare dall'apparenza: lo chiamano il Caimano di Wall Street. Lavora come un matto restando sobrio tutto il giorno, poi verso quest’ora inizia a rilassarsi bevendo a più non posso. Non so come faccia ma non si ubriaca mai."

      Aveva seguitato a pettegolare toccando gli altri presenti.

      M’ero domandato come Norma, semplice impiegata della fondazione, potesse sapere tutte quelle cose. Forse tramite il marito. Precisa risposta m’era giunta dopo alcuni minuti.

      Mentre si rientrava, mi s'era avvicinata lesta Liza Huppert, la moglie del generale, che prendendomi sotto il braccio m’aveva allontanato da Norma e indirizzato, quasi a forza, al tavolo delle bevande.

      Essendo lei parente del padron di casa, l'avevo seguita docile.

      "Norma è buona assistente, signor Velli?" m’aveva chiesto in uno stentato italiano: "Già mostrato città?"

      Avevo assentito col capo meccanicamente: "Parli pure la sua lingua, signora Huppert: conosco l'anglo americano bene. Sì, Norma Miniver m'è utilissima, in verità."

      Chi sa con qual viso l’avevo detto? So che la donna se n’era uscita con un sorriso non bello; e, con gran maleducazione: "Attento, dolce poeta! Non sarà mica che voi due…”

      "No", avevo smentito seccamente: "M'è di valido appoggio, tutto qui". L’avevo guardata fisso,