collegati, fede provata dei popoli loro, copia di attinenze e asprezza di luoghi, avrebbero potuto renderla formidabile alle difese.
Congregavasi la lega nella torre detta di Oddonino, presso la corte di Millesimo. Capitano della lega era in quel mezzo il magnifico messere Francesco, signor di Novelli, tra i Carretti d'allora il più innanzi nella prudenza e negli anni. A lui n'andò Veneroso Doria, amico e fautore dei Fregosi, come tutti gli altri del suo casato, e ottenuta la presenza dei collegati, espose, in nome di tutti i Doria, la sua ambasciata. Rammemorata l'antica amicizia delle due genti e i maritaggi che tratto tratto erano sopraggiunti ad unirle in parentado, non dubitò di noverare alcune recenti e vicendevoli offese. Colpevoli i Doria di essere stati primi a molestare i Carretti; colpevoli questi, nelle persone di due dei loro, Galeotto del Finaro e Giorgio di Zuccarello, di aver mosso guerra e fatto devastazioni gravissime nella valle di Oneglia, dominio amplissimo e rispettato dei Doria. Questi, per altro, memori dei profferti appigli, aver comportato con animo grande l'offesa; non così poter sofferire che Giorgio e Galeotto s'ostinassero a tener come proprie le castella occupate. La Lega, se aveva in alcun pregio l'amicizia dei Doria, comandasse la restituzione del maltolto; se no, sarebbero stati costretti i Doria a procacciar l'utile proprio e dare orecchio a' nemici dei Carretti, che fino a quel punto non aveano voluto ascoltare.
Ponderavano i Carretti, siccome era naturale che facessero, le gravi ragioni esposte da messer Veneroso. E Francesco, il vecchio capitano della lega, avea già proposto di rispondere: niente amar meglio i Carretti che vivere in pace coi Doria; non doversi ascrivere l'invasione di quel d'Oneglia, nè a Galeotto del Finaro, nè a Giorgio di Zuccarello, bensì ad espresso comando del signor di Milano, che a tutti soprastava. Per altro, a dimostrar meglio l'animo loro alieno da ogni litigio, come da ogni offesa ad amici e vicini, avrebbero esplorata la mente del Visconti e fatto il poter loro perchè le castella occupate nella valle d'Oneglia fossero restituite ai loro signori.
Senonchè Galeotto, il quale scorgeva nella intromissione dei Doria un artifizio del suo nemico inteso a sbigottirlo, volle si rispondesse in altra maniera. Ricordino i Doria, disse egli, ricordino quanto abbiano sovvenuto di consiglio e d'armi i Fregosi, allorquando Battista e Spinetta, di questa gente, vennero sulla Pietra, per assediarmi e impadronirsi di me. E il loro intento avrebbero essi raggiunto, se l'invincibile Filippo Maria Visconti non avesse mandato in mio soccorso messer Guido Torello, con grossa mano di cavalli e di fanti. Ricordino i Doria come abbiano essi favoreggiato i Fregosi, nella condotta di quel Baldazzo che lungamente guerreggiò il Finaro, e mancò poco non mi desse in balìa de' miei giurati nemici. Mai furono rette le intenzioni, mai schietti i diportamenti dei Doria verso di noi; smettano dunque di ricordare l'antica benevolenza; ricordino piuttosto l'antichissimo odio e il mal talento loro contro la nostra casata. Nulla sperate da noi; date pure liberamente ascolto ai nemici; cotesto vi tornerà per fermo più agevole e caro. Che cosa si stia macchinando tra voi, ci è noto, o messeri. Ma tutto non v'andrà, come pensate, a seconda; me prima torrete di vita che di animo.
In quella guisa fu risposto ai Genovesi. Ma eglino, o fosse per guadagnar tempo, o perchè sperassero di smuovere dalla lega alcuno nei Carretti, o finalmente perchè in tutto quel viavai d'ambasciatori mirassero a pigliar cognizione dei luoghi e dello stato degli animi, non si tennero paghi di quella risposta dettata dal marchese Galeotto, e vollero averne l'intiero.
Però mandarono in volta a tutte le famiglie dei Carretti un altro oratore, accortissimo uomo, che fu messere Ambrogio Senarega. Doveva egli apertamente ricordare i vecchi diritti di Genova sulla terza parte del Finaro, su Castelfranco e sulla terra di Giustenice, posta ai confini occidentali del marchesato; chiedere che Giustenice e Castelfranco fossero restituiti, e per la terza parte del Finaro si riconoscesse Galeotto feudatario della repubblica; a ciò volesse la lega persuaderlo, o, dove questi si ostinasse nel niego, abbandonar le sue parti. Certamente, poi, doveva in privati colloqui scandagliare i propositi e tentar la fede di tutti; che certo, e per antiche ruggini e per essere eglino in troppi, non dovevano vivere in così calda amicizia e comunanza d'interessi, come il fatto della lega mostrava. Del resto, provvedessero, come stimavano meglio, all'utile loro; ma ricordassero che Filippo Maria Visconti, protettore e amico a Galeotto era morto, e Milano rivendicata in libertà non avrebbe spalleggiato i nemici della repubblica genovese.
Anche in quella occasione la risposta della lega fu data da messer Francesco di Novelli. A difesa di Galeotto si ricordava la donazione di Filippo Maria; a discolpa di tutti i signori della lega si ripeteva non aver essi altro desiderio che di vivere in pace e in amicizia con Genova; del resto, avrebbero combattuto, se ella a ciò li astringeva, e resistito con ogni lor possa; che bene dovevano essi andare in soccorso di Galeotto, a cui erano stretti da vincoli d'alleanza e di sangue.
Queste le parole; ma i fatti voleano esser diversi. La morte di Filippo Maria Visconti improvvisamente avvenuta nell'agosto, e i torbidi che n'eran seguiti in Lombardia, d'onde più speravano aiuto in quel loro bisogno, avevano scosso la baldanza dei collegati marchesi. Bene avevano mandato lettere e messaggi a tutti i signori circonvicini per chieder consiglio e procacciarsi amicizie; ma in pari tempo (e qui era da vedersi il frutto delle pratiche di Ambrogio Senarega) disegnavano di mandare un oratore a Genova, per rabbonire i Fregosi.
Ora, vedete bel caso, quest'oratore fu bensì uno di loro, ma figliuolo a Marco, signore di Osiglia, che tra tutti i collegati era il meno amico a Galeotto e il più tiepido nei consigli di guerra.
Questi, che avea nome Abate, recatosi a Genova, mentre il Senarega scendeva da Osiglia al Finaro per abboccarsi con Galeotto e far le viste di raccomandargli la pace, mostrò ai Genovesi esser tra loro discordi i signori della lega. Rammentò come suo padre Marco e un suo cugino Gherardo di Santo Stefano, discendessero da quei due, Emanuele ed Aleramo, che avevano venduto la loro terza parte del Finaro, e come, nell'atto di volerla ricuperare, molti anni addietro, fossero stati presi ed imprigionati dalla madre di Galeotto, ed avessero perduto per giunta Calizzano; riandò tutte le vecchie ragioni d'inimicizia che covavano in seno a quel parentado; lasciò intendere come i Carretti avrebbero potuto, parte voltarsi contro, parte non dare al congiunto quel valido aiuto che egli si prometteva da essi; una sola cosa dimandò: che, frutto dei mutati consigli fosse a Marco suo padre la ricuperazione del dominio perduto.
Non è a dire se i Fregosi accogliessero di buon animo le confidenze di Marco e del figliuol suo, e come gli fossero larghi di promesse.
L'orso di Castel Gavone era ancora da prendere; si poteva impegnarne senza tanti riguardi la pelle.
Queste cose, siccome è agevole argomentare, ignorava Galeotto. E frattanto, poichè egli, messo al punto di dover provvedere alle sue difese, non poteva muoversi dal marchesato, e gli premeva in pari tempo di saper l'esito dell'ambasceria del figliuolo di Marco ai Genovesi, aveva disegnato di spedire Giacomo Pico alla torre di Oddonino e alle altre castella de' principali tra' suoi consanguinei. Nè a ciò si ristringeva la commissione del Pico. Egli, udito delle pratiche di Abate presso i Fregosi e di ciò che il capitano della lega, messer Francesco di Novelli, avesse deliberato di fare, doveva altresì, procedendo di corte in corte, raccogliendo i pareri e indagando gli animi di tutti, giungere fino alle rive del Tanaro, per recare un messaggio a Tommaso di Bagnasco.
Era questo messer Tommaso un onorevole cavaliere, della casata dei marchesi di Ceva. Quella gente erano guelfi, laddove i Carretti erano ghibellini; ma, oltre che i tempi delle acerbe nimicizie partigiane erano trascorsi e più assai importava a quelle schiatte marchionali vivere in pace tra loro e assodare la loro signoria, Tommaso di Bagnasco aveva sempre dimostrato a Galeotto la più schietta amicizia e s'era in parecchie occasioni profferto all'amico, per servirlo, come dicevasi allora, di coppa e di coltello.
E messer Giacomo Pico era andato, con che animo sel pensi il lettore. Si allontanava un tratto da madonna Nicolosina, ma, a ben guardare la sostanza delle cose, per avvicinarsi di più alla meta de' suoi desiderii. Diffatti, se la guerra inevitabile coi Genovesi mandava già a monte un temuto matrimonio, quella importantissima ambasceria commessa a lui dal marchese, ristringeva i vincoli dell'antica dimestichezza, aggiungeva servizio a servizio, gratitudine a gratitudine, dava esca e fondamento a più salde speranze. Al suo ritorno, poi, utile al suo signore per delicatissimi negoziati, come gli era stato caro per consuetudine antica e per aiuti personali, il Bardineto avrebbe operato tali miracoli di valore da farsi armar cavaliere sul campo e da meritare tal grazia appo i signori del Finaro, che a lui si sarebbe conceduta Nicolosina,