avvelenato, e se era ancora vivo.
Gwendolyn corse ancora più velocemente addentrandosi in quella zona malfamata della città, stupita di ritrovarsi lì per la seconda volta in così pochi giorni, in quella zona disgustosa della Corte del Re nella quale aveva giurato di non rimettere più piede. Se Godfrey era stato veramente avvelenato sapeva che doveva essere successo alla birreria. Dove sennò? Era furiosa con lui per essere tornato lì, per aver abbassato la guardia, per essere stato così sprovveduto. Ma più di tutto aveva paura per lui. Si rese conto di quanto si fosse affezionata al fratello in quegli ultimi pochi giorni, e il pensiero di perdere anche lui, soprattutto dopo aver già perso suo padre, le lasciava un buco nel cuore. Se ne sentiva anche in qualche modo responsabile.
Gwen era terrorizzata mentre correva lungo quelle strade, e non certo dagli ubriachi e dai furfanti che le stavano attorno. Era terrorizzata da suo fratello, Gareth. Era sembrato indemoniato durante il loro ultimo incontro, e lei non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine del suo volto, dei suoi occhi, così neri e privi di ogni sentimento. Sembrava posseduto. E il fatto che sedesse sul trono di loro padre rendeva l’immagine ancora più surreale. Temeva il suo castigo. Forse stava realmente tramando di darla in moglie fuori dal regno, una cosa che lei non avrebbe mai tollerato, o forse voleva solo spiazzarla e stava effettivamente tramando di uccidere anche lei. Gwen si guardò in giro e mentre correva ogni volto che incontrava le sembrava ostile e straniero. Tutti sembravano una potenziale minaccia, sicari mandati da Gareth per finirla. Stava diventando paranoica.
Gwen svoltò un angolo e urtò con una spalle un vecchio ubriaco. Il colpo le fece perdere l’equilibrio e lei saltò e lanciò un grido senza volerlo. Era estremamente tesa. Subito si rese conto che era un innocuo passante, non uno degli scagnozzi di Gareth. Si voltò e lo vide barcollare, senza neanche girarsi per chiedere scusa. Quella parte della città era talmente indegna da darle il voltastomaco. Se non fosse per Godfrey non si sarebbe mai neanche avvicinata a quella zona e lo odiò per averla indotta a tanto. Perché non poteva rimanere lontano dalla birreria e basta?
Gwen svoltò a un altro angolo ed eccola lì: la taverna preferita di Godfrey, un edificio precario, barcollante, con la porta spalancata e gente ubriaca che ne veniva fuori continuamente come al solito. Non perse altro tempo ed entrò di corsa.
Le ci volle un po’ perché gli occhi si abituassero all’oscurità. L’aria sapeva di birra stantia e di corpi, e quando Gwen entrò tutti fecero silenzio. C’erano circa una ventina di uomini, tutti ammassati all’interno, e si voltarono guardandola sorpresi. Eccola lì, un membro della famiglia reale, con indosso abiti raffinati, che entrava di colpo in quella stanza che probabilmente non veniva pulita da anni.
Raggiunse un uomo alto e panciuto che riconobbe essere Akorth, uno dei compagni di bevute di Godfrey.
“Dov’è mio fratello?” gli chiese.
Akorth, solitamente di buon umore, sempre pronto a uscirsene con battute sciocche delle quali si compiaceva ogni volta, la sorprese: si limitò a scuotere la testa.
“Non se la passa bene, mia signora,” disse con tono cupo.
“Cosa intendi dire?” insistette lei con il cuore che le martellava nel petto.
“Ha bevuto della birra non buona,” disse un uomo alto e magro nel quale riconobbe Fulton, l’altro amico di Godfrey. “È andato a letto tardi la scorsa notte. Non si è più alzato.”
“È vivo?” chiese Gwen agitata, afferrando il polso di Akorth.
“Appena,” rispose lui abbassando lo sguardo. “Se la passa veramente male. Ha smesso di parlare circa un’ora fa.”
“Dove si trova?” insistette Gwen.
“Nel retro, signora,” disse il locandiere passandole davanti mentre asciugava un boccale e lanciandole un’occhiata triste. “E fareste meglio a pensare in fretta a cosa fare di lui. Non ho intenzione di tenermi un cadavere nel mio locale.”
Gwen, sopraffatta dalle emozioni, sorprese se stessa estraendo un piccolo pugnale, chinandosi contro di lui e tenendo la punta contro la sua gola.
L’uomo deglutì e la guardò scioccato. Tutti tacquero.
“Prima di tutto,” disse Gwen, “questo posto non è un locale, ma una semplice scusa per mascherare una pozza per abbeverarsi, una catapecchia che farò radere al suolo dalla guardia reale se oserai parlarmi con questo tono un’altra volta. Vedi di iniziare il discorso con mia signora.”
Gwen si sentiva fuori di sé e si sorprese della propria forza: non aveva idea di cosa la generasse.
Il locandiere deglutì di nuovo.
“Mia signora,” ripeté.
Gwen tenne fermo il pugnale.
“Secondo: mio fratello non morirà, e certo non in questo posto. Il suo cadavere ti farebbe molto più onore di qualsiasi altra anima in vita che vi passi il tempo. E se dovesse morire, stai certo che la colpa ricadrà su di te.”
“Ma io non ho fatto nulla di male, mia signora!” la implorò. “Era la stessa birra che ho servito a tutti!”
“Qualcuno deve averla avvelenata,” aggiunse Akorth.
“Può essere stato chiunque,” disse Fulton.
Gwen abbassò lentamente il pugnale.
“Portatemi da lui. Ora!” ordinò.
Il locandiere abbassò la testa, questa volta con umiltà, e si voltò passando di corsa attraverso una porta laterale. Gwen lo seguì, Akorth e Fulton si unirono a lei.
Gwen entrò nella piccola stanza sul retro della taverna e sussultò quando vide suo fratello, Godfrey, steso supino a terra. Era più pallido che mai. Sembrava a un passo dalla morte. Era tutto vero.
Gwen corse al suo fianco, gli afferrò una mano e la sentì fredda e sudata. Non le rispose. La sua testa giaceva sul pavimento, aveva la barba incolta e i capelli sudati appiccicati alla fronte. Ma Gwen sentì il battito, debole ma presente. Vide anche che il petto si sollevava e riabbassava respirando. Era vivo.
Sentì una rabbia improvvisa montarle dentro.
“Come potete lasciarlo qui a questo modo?” gridò rivolta al locandiere. “Mio fratello, un membro della famiglia reale, lasciato qui steso sul pavimento come un cane mentre sta morendo?”
Il locandiere deglutì nervoso.
“E cos’altro avrei potuto fare, mia signora?” le chiese insicuro. “Questo non è un ospedale. Tutti hanno detto che era praticamente morto e…”
“Godfrey non è morto!” gridò. “E voi due,” disse voltandosi verso Akorth e Fulton. “che razza di amici siete? Lui vi avrebbe lasciati così?”
Akorth e Fulton si scambiarono uno sguardo vergognoso.
“Perdonaci,” disse Akorth. “Il medico è venuto la scorsa notte, gli ha dato un’occhiata e ha detto che stava morendo. Non era che questione di tempo. Pensava non ci fosse nulla da fare.”
“Siamo rimasti con lui quasi tutta la notte, mia signora,” aggiunse Fulton, “al suo fianco. Abbiamo fatto solo una piccola pausa, abbiamo bevuto qualcosa per attenuare il dispiacere, poi sei arrivata tu e…”
Gwen allungò una mano e con rabbia fece loro cadere di mano entrambi i boccali, mandandoli sul pavimento a riversare birra ovunque. Loro la guardarono scioccati.
“Voi due, sollevatelo,” ordinò freddamente, alzandosi in piedi e sentendo una nuova forza crescerle dentro. “Lo porterete fuori da questo posto. Mi seguirete lungo la Corte del Re fino a che raggiungeremo la guaritrice reale. Daremo a mio fratello una possibilità di riprendersi, e non lo lasceremo morire sulla base della sentenza di un qualche stupido medico.
“E tu,” aggiunse rivolgendosi al locandiere. “Se mio fratello dovesse vivere, e se dovesse mai fare ritorno in questo posto e tu gli servirai ancora da bere, mi accerterò che tu venga gettato nelle segrete per non uscirne mai più.”
Il locandiere tenne la testa bassa, inquieto.
“E