riuniti attorno al tavolo, come sempre, litigando per i rimasugli di cibo e ridendo tra loro. Con Steffen però non avevano mai riso. Se dovevano ridere, ridevano di lui.
Sembravano tutti più vecchi, ma allo stesso tempo erano uguali a una volta. Li guardò tutti con meraviglia. Lui era veramente parte di quella famiglia?
La madre fu la prima a notarlo. Si voltò e vedendolo sussultò e lasciò cadere il piatto che andò in frantumi a terra.
Il padre fu il secondo a girarsi, poi tutti gli altri lo fissarono scioccati di rivederlo lì. Erano tutti evidentemente dispiaciuti di vederlo, come se fosse appena arrivato un ospite indesiderato.
“Quindi,” disse il padre lentamente, accigliandosi e facendo il giro della tavola dirigendosi verso di lui e asciugandosi il grasso dalle mani con un fazzoletto in modo minaccioso, “alla fine sei tornato.”
Steffen ricordò che suo padre era solito fare un nodo a quel fazzoletto, inumidirlo e poi usarlo per frustarlo.
“Qual è il problema?” gli chiese con un sorriso sinistro in volto. “Non ce la facevi più nella grande città?”
“Pensava di essere troppo buono per noi. E ora se ne torna a casa come un cane!” gridò uno dei suoi fratelli.
“Come un cane!” gli fece eco una sorella.
Steffen stava fumando di rabbia e aveva il respiro pesante, ma si sforzò di trattenere la lingua e non scendere al loro livello. Dopotutto quelli erano dei provinciali, pieni di pregiudizi, il risultato di una vita trascorsa in un piccolo villaggio. Lui invece aveva visto il mondo e conosceva meglio le cose.
I suoi familiari – praticamente tutti nella stanza – ridevano di lui.
L’unica a non ridere, ma fissa a guardarlo con gli occhi sgranati era sua madre. Si chiese se magari lei potesse essere l’unica da salvare nel gruppo. Si chiese se magari potesse essere felice di vederlo.
Ma lei non fece che scuotere la testa.
“Oh, Steffen,” gli disse. “Non saresti dovuto tornare qui. Non sei parte di questa famiglia.”
Le sue parole, sciorinate con quella calma, senza malizia, gli fecero male più di tutto.
“Non ne è mai stato parte,” disse il padre. “È una bestia. Cosa ci fai qui, ragazzo? Sei tornato per avere più avanzi?”
Steffen non rispose. Non aveva il dono della parola, delle risposte veloci e di spirito, e certo non in un momento emotivamente forte come quello. Era così sconvolto da non riuscire quasi a dire una sola parola. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dire a tutti loro, ma nessuna parola gli venne in mente.
Quindi rimase semplicemente lì, furente e in silenzio.
“Il gatto ti ha mangiato la lingua?” lo prese in giro suo padre. “Allora levati dai piedi. Mi stai facendo perdere tempo. Questo è il nostro grande giorno e non sarai certo tu a rovinarlo.”
Suo padre lo spinse da parte e andò oltre, uscendo dalla porta e guardando in entrambe le direzioni. Tutta la famiglia rimase in attesa guardando, fino a che il padre tornò sbuffando, contrariato.
“Non sono ancora arrivati?” chiese la madre speranzosa.
Lui scosse la testa.
“Non so dove possano essere,” disse il padre.
Poi si voltò verso Steffen, arrabbiato e rosso in volto.
“Esci dalla porta,” gli abbaiò contro. “Stiamo aspettando una persona molto importante e tu blocchi l’ingresso. Vuoi rovinare tutto, vero? Come hai sempre fatto. Che tempismo hai a farti vedere in momenti come questi. Il comandante della regina in persona sarà qui a momenti per distribuire rifornimenti e scorte al villaggio. Questo è il nostro momento per fare richiesta. E guardati,” lo schernì il padre, “tu te ne stai lì a bloccare il passaggio. Se ti vede passerà oltre la nostra casa. Penserà che siamo una casa di fricchettoni.”
I fratelli e le sorelle si misero a ridere.
“Una casa di fricchettoni!” ripeté uno di loro.
Steffen rimase fermo lì, diventando rosso in volto lui stesso, fissando suo padre che lo guardava accigliato.
Steffen, troppo sconvolto per rispondere, si voltò lentamente, scosse la testa e uscì dalla porta.
Andò in mezzo alla strada e fece cenno ai suoi uomini.
Improvvisamente decine di splendenti carrozze reali apparvero attraversando di corsa il villaggio.
“Stanno arrivando!” gridò il padre di Steffen.
Tutti i famigliari uscirono di corsa, passando oltre Steffen e mettendosi allineati a guardare i carri e la guardia reale.
Tutti i soldati si voltarono a guardare Steffen.
“Mio signore,” disse uno di loro, “dobbiamo distribuire qui o andiamo avanti?”
Steffen rimase fermo, le mani sui fianchi, guardando la propria famiglia.
Tutti insieme quelli si voltarono, scioccati oltre misura, e lo fissarono. Continuavano a spostare lo sguardo da Steffen alla guardia reale, completamente stupefatti, incapaci di comprendere ciò a cui stavano assistendo.
Steffen camminò lentamente, montò in sella al suo cavallo reale e si accomodò tra gli altri, seduto sulla sua sella d’oro e d’argento, guardando da lì la sua famiglia.
“Mio signore?” ripeté suo padre. “È uno scherzo di cattivo gusto o cosa? Tu? Il comandante reale?”
Steffen rimase semplicemente seduto, guardando suo padre e scuotendo la testa.
“È così, padre,” rispose. “Sono il comandante reale.”
“Non può essere,” disse il padre. “Non può essere. Come può accadere che una bestia venga scelta per la guardia della regina?”
Improvvisamente due guardiani reali smontarono da cavallo, sguainarono le spade e corsero verso l’uomo. Gli tennero le punte delle spade alla gola, premendo abbastanza forte da fargli sgranare gli occhi per la paura.
“Insultare un uomo della regina è come insultare la regina stessa,” disse uno dei soldati al padre di Steffen.
Poi cadde sulle ginocchia e iniziò a singhiozzare.
Steffen si limitò a scuotere la testa davanti a quella gente bugiarda, disonesta, priva di onore, gente che era stata solo crudele con lui per tutta la vita. Ora che capivano che era diventato qualcuno, volevano qualcosa da lui.
Steffen decise che non meritavano neppure una risposta da lui.
E capì anche un’altra cosa: per tutta la vita aveva tenuto la sua famiglia in palmo di mano. Come se fossero gente grandiosa, perfetta, di successo, come voleva diventare anche lui. Ma ora si rendeva conto che la verità era l’esatto contrario. Tutta la sua infanzia e la sua crescita era stata una grande delusione. Quelle erano solo persone patetiche. Nonostante il suo aspetto fisico, lui era di gran lunga al di sopra di loro. Per la prima volta se ne rendeva conto.
Abbassò lo sguardo su suo padre e per un momento una parte di lui desiderò di fargli del male. Ma un’altra parte di lui si rese conto di una cosa: quelli non meritavano neppure la sua vendetta. Avrebbero dovuto essere qualcuno per meritarsela. E non erano nessuno.
Steffen si voltò verso i suoi uomini.
“Penso che questo villaggio se la possa cavare da solo,” disse.
Spronò il cavallo e sollevando una grossa nuvola di polvere si allontanarono dalla cittadina. Steffen era determinato a non fare più ritorno in quel luogo.
CAPITOLO OTTO
I servitori spalancarono le antiche porte di quercia e Reece scappò al riparo dal tempo che imperversava, completamente fradicio per il vento e la pioggia che si stavano abbattendo sulle Isole Superiori, trovando rifugio nel forte di Srog. Provò un istantaneo sollievo al trovarsi all’asciutto quando le porte si richiusero dietro di lui. Si asciugò l’acqua dai capelli e dalla faccia