Si fermò solo per un attimo, per dare un ultimo sguardo dolente verso il piccolo edificio a forma di “L”. Quell’ammasso disordinato di mattoni di fango appena sbozzati faceva da scuola, ospedale, mensa, magazzino e sala riunioni. Così come lui nel tempo aveva fatto da maestro e cuoco, dottore e magazziniere, almeno fino all’arrivo di Sarah. Quella palazzina era soltanto uno dei molti risultati visibili dell’impegno col quale aveva combattuto giorno dopo giorno, a dispetto degli scontri politici ed economici tra le nazioni, per riuscire dare qualcosa a quella povera gente. Giunto al luogo dell’appuntamento fece scorrere lo sguardo sui volti scuri e tesi, schierati a semicerchio attorno a lui, soffermandosi per un attimo su ogni singola coppia di occhi luccicanti che lo fissava nella semioscurità della sera. Oltre la fila di teste, in lontananza, scorse la figura di Sarah dietro la tenda di una finestra. Per un istante fu tentato di tornare sui suoi passi per abbracciarla un’ultima volta, ma sapendo che sarebbe stato troppo doloroso rinunciò.
Walter scrutò la radura poco distante che ospitava il piccolo cimitero, illuminato dall’incerta luce lunare. Le croci bianche, che nelle ultime settimane si erano moltiplicate, spiccavano nel buio. Walter scosse la testa e riprese il cammino lungo il breve sentiero che lo separava dal fiume, seguito dagli altri.
Camminava lentamente, accompagnato dai flebili rumori notturni, con il machete in mano e i pantaloni color Kaki che frusciavano contro l’erba troppo rigogliosa. Si fermò sulla riva paludosa, davanti al piccolo pontile al quale erano attraccate le piroghe. Gli altri continuavano a fissarlo in silenzio, timidamente rispettosi, lui sperò ancora una volta che si trattasse soltanto di un brutto sogno. Alla luce della torcia si notavano le precoci spruzzate di grigio sulle sue tempie, accompagnate da qualche piccola ruga attorno agli occhi e agli angoli della bocca. Sentì un improvviso rumore di passi in corsa e per un attimo sperò che si trattasse di lei, ma dal folto della vegetazione sbucò invece fuori un piccolo aborigeno. Poteva avere al massimo otto anni, aveva il viso dipinto coi colori della sua tribù e si atteggiava come un guerriero. Stringeva in mano un arco pronto a scoccare verso di lui, gli altri misero rapidamente mano alle proprie cerbottane e le puntarono contro il bambino. Pochi secondi divennero un’eternità. Walter fece cenno ai propri accompagnatori di abbassare le armi, poi socchiuse gli occhi e rivide il padre del bambino morirgli tra le braccia.
«Mi spiace» riuscì appena a mormorare Walter nella sua lingua, aveva la gola arsa e sapeva che non era a causa della paura. Il piccolo guerriero era scosso da un tremito, ma i suoi occhi sembravano non tradire alcuna emozione.
«Hai ucciso mio padre» accusò Walter con la sua stridula voce da bambino, lui non rispose.
«Dì qualcosa» insisté l’ometto, ma l’altro continuò a guardarlo fisso senza aggiungere altro. Lasciò cadere il machete, si sfilò la tracolla della borsa e l’adagiò a terra. Poi rimase in attesa, mentre una goccia di sudore freddo stillava dalla sua tempia. Il bambino lanciò un ruggito rabbioso e nello scoccare la freccia spostò l’arco di pochi gradi verso destra, il dardo avvelenato sibilò a pochi millimetri dalla testa di Walter e andò a perdersi nell’oscurità. Poi il piccolo guerriero lasciò cadere l’arco e corse ad abbracciarlo, piangendo.
«Non andare» gli sussurrò all’orecchio, e lui si sentì morire.
«Non andare Dottore, come faremo senza di te? Chi si prenderà cura di noi?» gli fece eco Sam.
Walter rispose con un lungo sguardo silenzioso e triste, stringendo i pugni per la rabbia. Raccolse le sue cose, si cacciò in testa il cappello di paglia e si sistemò alla meglio sulla canoa. Sam prese posto di fronte a lui, Walter gli fece un cenno con la testa e i colpi di pagaia presero a risuonare nella notte, secchi e regolari, accompagnati da un lamentoso canto d’addio. Ogni tuffo del remo nell’acqua era una sferzata al suo cuore, stava abbandonando contro la sua volontà tutto quello a cui aveva dedicato gran parte della propria vita, senza risparmiarsi. Si domandò che cosa avrebbe fatto dopo, ma subito scoprì che non gliene importava niente. Era come se la sua vita fosse finita lì, affondata nel fiume Congo, nel cuore della foresta tropicale.
CAPITOLO XXIII (WALTER E SARA)
Guardando scomparire Walter nel fitto della foresta, Sarah si rese conto di non aver mai provato un simile stato d’animo. L’unica cosa di cui era certa era che si sentiva un verme, per non aver avuto nemmeno il coraggio di andare a salutarlo. Guardò ancora un volta i fogli sparsi a terra, la copia degli stessi che aveva ricevuto lui. “Per conoscenza” vi aveva scritto a grandi lettere, in bella calligrafia, qualche impiegato amante della burocrazia e del proprio lavoro. Si protese in avanti per raccoglierli ma ci ripensò, diede un’alzata di spalle e andò a sedersi sul divano di bambù intrecciato, cercando un improbabile sollievo nel getto d’aria artificiale del ventilatore. Ma questo continuava a muovergli intorno l’odore di lui che si sentiva ancora addosso, esasperando la sua lotta interiore. Ripensò a com’era stata bene nelle ultime settimane e a come la situazione era inaspettatamente precipitata, travolgendoli senza lasciar loro una possibilità di scegliere. Le cose avevano cominciato ad andar male proprio nel momento in cui loro due avevano iniziato a conoscersi meglio e a capirsi, quando si erano sentiti finalmente pronti a lasciarsi andare. Fare l’amore con lui era stato bellissimo, ma adesso le restava addosso soltanto una grande e triste amarezza. Si odiava perché non era stata abbastanza egoista, o forse coraggiosa, da tradire la povera gente della missione in cui prestava servizio come tirocinante, in attesa di diventare dottoressa in medicina. Era certa che comunque, in qualche modo, laggiù avrebbe potuto comunque continuare a rendersi utile. Eppure, rinunciare così a quella che sembrava dover diventare la storia d’amore più importante di tutta la sua vita la addolorava molto. Ripensando ai pochi intensi attimi che aveva vissuto con lui, dagli scontri che avevano avuto all’inizio fino alla scoperta di un sentimento profondo, si assopì. Un lieve rumore la svegliò improvvisamente e lei sussultò per lo spavento, Sam era in piedi davanti a lei e la stava studiando, indeciso se svegliarla o meno. Era sudato, i muscoli delle sue possenti braccia erano turgidi a causa dello sforzo, aveva remato ininterrottamente per quasi tre ore.
«E’ partito?» gli domandò lei, lui annuì. Sarah si disse che l’aveva perso davvero, si coprì il viso con le mani e si costrinse a non piangere. «Hai fatto ciò che ti avevo chiesto?»
«Gliel’ho infilato nella borsa mentre lo abbracciavo.»
«Grazie» mormorò lei, poi non aggiunse altro. Il gigantesco uomo di colore capì che voleva stare sola e si allontanò.
Franco alza la testa, si sente stordito. Gli sembra impossibile essere l’autore di quelle pagine, eppure ha appena terminato di scrivere un intero romanzo. Mette distrattamente a fuoco i propri piedi, che penzolano nel vuoto come se fosse la cosa più normale del mondo. Fa leva con un piede sull’altro per sfilarsi le scarpe da tennis già slacciate, scalciando per lasciarle cadere nel vuoto. Una di esse rimane incastrata tra i fili per stendere i panni, due piani più giù, l’altra tocca il suolo dopo un volo di quindici metri e per poco non arriva dritta sulla piccola folla assiepata nel cortile. Franco guarda in basso e si stupisce di come siano piccole le teste dei curiosi, viste da lassù, addirittura più piccole dell’unghia del dito mignolo del suo piede. Un potente sferragliare, misto a un cigolio acuto attira di colpo la sua attenzione. Schermandosi gli occhi con l’avambraccio, per proteggerli dalla luce ancora intensa del sole morente, guarda avanti sé. Stagliata contro la palla rossa, la scala del camion dei Vigili del Fuoco è salita in alto. Adesso sta calando dritta verso di lui, senza fretta, scotendo le fronde dei pini. Per un attimo Franco la trova invitante, gli viene da pensare che forse sta sbagliando tutto. Si dice che magari sarebbe sufficiente che si lasci aiutare e che aspetti l’arrivo di sua moglie. Magari i mostri che ha nella testa scompariranno, improvvisamente come sono venuti, e lui potrebbe riabbracciare i suoi figli. Non li vede da appena pochi giorni ma gli mancavano già terribilmente. L’uomo sulla scala indossa una tuta di colore arancione bordata di strisce fluorescenti, è ancora lontano ma sta già tendendo un braccio verso di lui. Franco scuote la testa, deciso, si sente come avvolto in un invisibile bozzolo di ovatta grigia che lo tiene separato dal resto del Mondo e gli impedisce di vedere chiaramente le cose.
«Vattene, lasciami in pace! Andatevene tutti, ormai è tardi!» grida sbracciandosi, si sbilancia e