Блейк Пирс

La moglie perfetta


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quel fiasco, Jessie era poi tornata spesso, dato che adorava il glamour vecchio stile del posto. Questa volta si trovò subito a suo agio girovagando attraverso i corridoi e le sale da ballo per una ventina di minuti abbondanti.

      Mentre attraversava la lobby, diretta verso l’uscita, notò un uomo dall’aspetto giovanile e vestito elegantemente che se ne stava causalmente accanto alla postazione del fattorino, intento a leggere un giornale. Ciò che attirò l’attenzione di Jessie fu quanto fosse sudato. Con l’aria condizionata che rinfrescava l’hotel, non capiva come potesse essere fisicamente possibile. Eppure, a intervalli di pochi secondi, si tamponava le gocce di sudore che si formavano costantemente sulla sua fronte.

      Perché questo tipo è così sudato mentre legge con noncuranza un giornale?

      Jessie si portò più vicina e tirò fuori il telefono. Finse di leggere qualcosa, ma avviò la modalità macchina fotografica e lo inclinò in modo da poter guardare il tizio senza effettivamente fissarlo direttamente. Di tanto in tanto scattò anche qualche foto.

      Non sembrava che stesse effettivamente leggendo il giornale, quanto piuttosto utilizzandolo come oggetto di scena mentre di tanto in tanto guardava in direzione dei bagagli che venivano posizionati sul carrello. Quando uno dei fattorini iniziò a spingere il carrello verso l’ascensore, l’uomo si mise il giornale sottobraccio e lo seguì camminando lentamente.

      Il fattorino spinse il carrello nell’ascensore e anche l’uomo vi entrò, portandosi dall’altra parte del carrello. Proprio mentre le porte si chiudevano, Jessie vide che l’uomo afferrava dal lato del carrello una valigetta che non era visibile al fattorino.

      Jessie osservò l’ascensore che lentamente saliva e si fermava all’ottavo piano. Dopo circa dieci secondi, riprese a scendere. Subito lei si portò vicino all’addetto alla sicurezza vicino alla porta d’ingresso. Il guardiano, un uomo sulla quarantina dall’aspetto bonario, le sorrise.

      “Penso ci sia un ladro all’opera nell’hotel,” disse Jessie senza alcun preambolo, volendo arrivare rapidamente al sodo.

      “Come sarebbe a dire?” chiese l’uomo ora accigliandosi un poco.

      “Ho visto questo tizio,” disse lei mostrando la foto fatta con il cellulare, “che prendeva una valigetta da un carrello bagagli. Può darsi che fosse sua. Ma è stato piuttosto furtivo e stava sudando come succede quando uno è nervoso per qualcosa.”

      “Va bene, Sherlock,” disse la guardia scetticamente. “Assumendo che tu abbia ragione, come potrei trovarlo? Hai visto a che piano si è fermato l’ascensore?”

      “Otto. Ma se ho ragione, non ha importanza. Se è un ospite dell’hotel, immagino che sia il suo piano e che sia lì che è alloggiato.”

      “E se non è un ospite?” chiese la guardia.

      “Allora immagino che tornerà dritto giù con l’ascensore che sta scendendo alla lobby in questo momento.”

      Proprio mentre lo stava dicendo, la porta dell’ascensore si aprì e l’uomo sudato e con l’abito elegante uscì, il giornale in una mano e la valigetta nell’altra. Si diresse verso l’uscita.

      “Immagino che la infilerà da qualche parte e inizierà da capo l’intera procedura,” disse Jessie.

      “Resta qui,” le disse la guardia, poi parlò alla radio. “Ho bisogno di rinforzi nella lobby, all’istante.”

      Si avvicinò all’uomo, che lo vide con la coda dell’occhio e accelerò il passo. La guardia fece lo stesso. L’uomo si mise a correre e stava per passare attraverso la porta d’accesso quando andò a sbattere contro un altro addetto alla sicurezza che correva nella direzione opposta. Entrambi finirono a terra.

      La guardia che aveva parlato con Jessie afferrò l’uomo, lo sollevò e gli tirò la braccia dietro la schiena, per poi sbatterlo contro la parete.

      “Le spiace se guardo nella sua valigia, signore?” gli chiese.

      Jessie avrebbe voluto vedere come tutto si sarebbe svolto, ma una rapida occhiata all’orologio le rivelò che il suo appuntamento con la dottoressa Lemmon, fissato per le 11, sarebbe iniziato tra cinque minuti. Avrebbe dovuto rinunciare alla passeggiata per tornare indietro, prendendo invece un taxi per arrivare in tempo. Non aveva neanche la possibilità di salutare la guardia. Aveva paura che se l’avesse fatto, lui avrebbe insistito per farla stare lì e fare una dichiarazione alla polizia.

      Ce la fece appena in tempo e si stava proprio sedendo senza fiato nella sala d’aspetto, quando la dottoressa Lemmon aprì la porta dell’ufficio per invitarla a entrare.

      “Sei venuta qui di corsa da Westport Beach?” le chiese il medico ridacchiando.”

      “A dire il vero, più o meno.”

      “Beh, entra e mettiti comoda,” disse la dottoressa Lemmon, chiudendo la porta dietro di sé e versando per entrambe un bicchiere d’acqua da una caraffa piena di limoni e fette di cetriolo. Aveva ancora l’orribile permanente che Jessie ricordava, con quei riccioli biondi piccolissimi che rimbalzavano quando le toccavano le spalle. Indossava occhiali spessi che facevano apparire più piccoli i suoi occhi intensi da gufo. Era una donna minuta, sicuramente non più alta di un metro e cinquanta. Ma era visibilmente soda e muscolosa, probabilmente come risultato dello yoga che, come aveva raccontato a Jessie, praticava tre volte a settimana. Per essere una donna sulla sessantina, aveva un aspetto pazzesco.

      Jessie si mise a sedere sulla comoda poltroncina che usava sempre per le sedute e subito si ritrovò nella vecchia atmosfera a cui era un tempo abituata. Era da un po’ che non veniva lì, ben più di un anno, e aveva sperato di continuare ad evitarlo. Ma era un posto che le dava agio, un posto dove aveva lottato, a volte con successo, per trovare la pace con se stessa.

      La dottoressa Lemmon le porse il bicchiere d’acqua, si sedette di fronte a lei, prese un taccuino e una penna e se li posò in grembo. Quello era il suo segno che la seduta era formalmente iniziata.

      “Di cosa parliamo oggi, Jessie?” le chiese con calore.

      “Prima di tutto buone notizie. Farò il mio tirocinio al DSH-Metro, Unità DNR.”

      “Oh, wow. È impressionante. Chi e il tuo consulente di facoltà?”

      “Warren Hosta della UC-Irvine,” rispose Jessie. “Lo conosce?”

      “Abbiamo interagito,” disse la dottoressa cripticamente. “Penso che tu sia in buone mani. È permaloso, ma sa il fatto suo, che è ciò che conta per te.”

      “Sono felice di sentirlo, perché non avevo molta scelta,” spiegò Jessie. “Era l’unico che il Comitato avrebbe approvato nella zona.”

      “Immagino che per avere ciò che vuoi, tu debba attenerti alle loro regole. Era ciò che volevi, giusto?”

      “Sì,” rispose Jessie.

      La dottoressa Lemmon la guardò con attenzione. Un momento di tacita comprensione passò tra loro. Al tempo in cui Jessie era stata interrogata dalle autorità riguardo alla sua tesi, la dottoressa Lemmon si era presentata di punto in bianco alla stazione di polizia. Jessie ricordava di aver guardato la psichiatra parlare sommessamente con diverse persone che stavano silenziosamente osservando il suo interrogatorio. Dopodiché le domande erano apparse meno accusatorie e più rispettose.

      Solo più tardi Jessie aveva appreso che la dottoressa Lemmon era un membro del Comitato e che era quindi ben consapevole di ciò che accadeva al DNR. Aveva addirittura avuto in cura alcuni dei pazienti lì ricoverati. A ripensarci, non avrebbe dovuto essere una sorpresa. Dopotutto Jessie aveva scelto quella donna come terapeuta proprio per la sua reputazione e competenza nel settore.

      “Posso chiederti una cosa, Jessie?” domandò la dottoressa Lemmon. “Dici che lavorare al DNR è ciò che vuoi. Ma hai considerato che quel posto potrebbe non darti le risposte che stai cercando?”

      “Voglio solo capire meglio come pensano queste persone,” insistette Jessie, “in modo da poter essere una profiler