e lei decise di chiudere la serata con un colpo duro.
“Non mi definirei una psicolabile, Doyle. Sono decisamente danneggiata, al punto da svegliarmi nel mezzo della notte gridando. Ma psicolabile? Non direi. Abbiamo divorziato principalmente perché mio marito era un sociopatico che ha assassinato un donna con cui andava a letto, ha tentato di incastrare me per l’omicidio e infine ha tentato di uccidere me e due dei nostri vicini. Ha davvero seguito alla lettera il ‘finché morte non ci separi’.”
Doyle la fissò a bocca aperta. Jessie aspettò che si riprendesse, curiosa di vedere come se la sarebbe cavata. Non particolarmente bene, notò.
“Oh, è terribile. Ti chiederei di più, ma mi è appena venuto in mente che ho una deposizione domattina presto. Sarà meglio che vada a casa. Spero di vederti in giro.”
Prima che Jessie potesse solo dirgli “Ciao Doyle” era già sceso dallo sgabello, diretto verso la porta.
*
Jessica Thurman tirò su la coperta per riparare il proprio piccolo corpo che stava quasi congelando. Era da sola nel capanno con il cadavere di sua madre da tre giorni ormai. Era così delirante per la mancanza di acqua, di calore e di interazione umana che a volte pensava che sua madre le parlasse, anche se il suo corpo era accasciato e immobile, le braccia ancora sostenute dalle manette attaccate alle travi di legno del soffitto.
Improvvisamente si sentirono dei colpi alla porta. C’era qualcuno subito fuori dal capanno. Non poteva essere suo padre. Non aveva alcun motivo per bussare. Lui entrava ovunque voleva, ogni volta che lo desiderava.
I colpi si sentirono ancora, solo che questa volta sembravano diversi. C’era una specie di trillo mescolato ad essi. Non aveva senso: il capanno non aveva un campanello. Il trillo si sentì ancora, questa volta senza alcun colpo contro la porta.
Improvvisamente Jessie spalancò gli occhi. Si trovava distesa a letto e premise al suo cervello di capire che il trillo che aveva sentito veniva dal suo cellulare. Si piegò in avanti per afferrarlo, notando che mentre il suo cuore batteva forte e il respiro era affannato, non si trovava sudata come le capitava di solito in seguito a un incubo.
Era il detective Ryan Hernandez. Rispondendo, Jessie guardò l’ora: erano le 2:13 del mattino.
“Pronto,” rispose con voce quasi completamente fresca e libera.
“Jessie. Sono Ryan Hernandez. Scusa se ti chiamo a quest’ora, ma ho ricevuto una chiamata per investigare una morte sospetta ad Hancock Park. Garland Moses non riceve più chiamate notturne e tutti gli altri sono già impegnati. Sei disponibile?”
“Certo,” rispose Jessie.
“Se ti mando un messaggio con l’indirizzo, puoi essere qui in mezz’oretta?” le chiese.
“Facciamo un quarto d’ora.”
CAPITOLO SETTE
Quando Jessie accostò parcheggiando l’auto davanti alla villa in Lucerne Boulevard alle 2:29, c’erano già diverse auto della polizia, un’ambulanza e un veicolo del medico legale. Scese dalla macchina e andò alla porta d’ingresso, cercando di darsi una parvenza il più professionale possibile date le circostanze.
C’erano dei vicini sui marciapiedi attigui, molti di loro avvolti in giubbotti o altri vestiti pesanti per proteggersi dal freddo della notte. Questo genere di cose non era tipico per un quartiere benestante come Hancock Park. Accoccolato tra Hollywood a nord e il distretto del Mid-Wilshire a sud, era un enclave di antiche famiglie di Los Angeles. O almeno tanto ‘antiche’ quanto le si poteva considerare in una città che non aveva alcuna tradizione storica.
La gente che abitava qui non apparteneva alla categoria delle star cinematografiche o dei magnati di Hollywood che si potevano trovare a Beverly Hills o a Malibu. Queste erano le case di coloro che erano benestanti da generazioni, che potevano avere un lavoro come anche no. E se ce l’avevano, generalmente era per evitare la noia. Ma questa notte pareva che non dovessero preoccuparsi di annoiarsi. Dopotutto uno di loro era morto e tutti erano curiosi di sapere chi.
Jessie provò una certa emozione mentre saliva i gradini che portavano alla porta d’ingresso, che era contrassegnata con il nastro giallo della polizia. Questa era la prima volta che arrivava sulla scena di un crimine senza esservi scortata da un detective. E significava che era la prima volta che doveva mostrare le proprie credenziali d’accesso all’area delimitata.
Ricordava di essere stata così emozionata quando le aveva ricevute. Aveva anche fatto le prove a casa, mostrandole a Lacy. Ma ora, mentre rovistava nelle tasche del cappotto cercando di trovare il pass, si sentiva sorprendentemente nervosa.
Non ce n’era bisogno. L’agente in cima ai gradini vi diede una rapida e distratta occhiata mentre spostava il nastro giallo per farla passare.
Jessie trovò Hernandez e un altro detective subito nell’atrio di ingresso della casa. L’altro uomo era più giovane e aveva l’aspetto di chi ha pescato la pagliuzza più corta. Il grado superiore del detective Reid doveva avergli concesso di scansare quella chiamata. Jessie si chiese anche perché Hernandez non avesse fatto valere la sua autorità. La vide e le fece cenno di avvicinarsi.
“Jessie Hunt, non so se hai conosciuto il detective Alan Trembley. Era il detective di servizio stanotte e lavorerà al caso insieme a me.”
Mentre Jessie gli stringeva la mano non poté fare a meno di notare che, con i suoi capelli ricci e biondi spettinati e gli occhiali a metà del setto nasale, sembrava perso proprio come si sentiva lei.
“La nostra vittima si trova nella casa della piscina,” disse Hernandez mentre iniziava a camminare, facendo strada. “Si chiama Victoria Missinger. Trentaquattro anni. Sposata. Niente figli. È all’interno di una piccola nicchia nascosta subito fuori dalla stanza principale, il che spiegherebbe perché c’è voluto tanto per trovarla. Suo marito ha chiamato oggi pomeriggio, dicendo che da ore non riusciva a mettersi in contatto con lei. C’era una certa preoccupazione che potesse trattarsi di un caso di riscatto, quindi non è stata fatta una completa perquisizione della casa se non poche ore fa. Il suo corpo è stato trovato da un cane da ricerca corpi.”
“Gesù,” mormorò Trembley sottovoce, inducendo Jessie a chiedersi quanta esperienza avesse per lasciarsi sconvolgere dalla nozione di un cane da ricerca corpi.
“Come è morta?” chiese lei.
“Il medico legale è ancora sul posto e non sono stati fatti esami del sangue. Ma la teoria iniziale è un’overdose da insulina. È stato rinvenuto un ago vicino al corpo. Era diabetica.”
“Si può morire per overdose da insulina?” chiese Trembley.
“Certo, se non la si cura,” disse Hernandez mentre percorrevano un lungo corridoio nel corpo principale della casa, diretti verso la porta sul retro. “E pare che sia rimasta da sola nella stanza per ore.”
“Pare che abbiamo a che fare con un sacco di fatti connessi all’uso di aghi ultimamente, detective Hernandez,” notò Jessie. “Sa, mi piacerebbe avere a che fare con una sparatoria di tanto in tanto.”
“Pura coincidenza, te lo assicuro,” rispose lui sorridendo.
Uscirono e Jessie si rese conto che l’enorme casa davanti nascondeva un cortile retrostante ancora più grande. Un’enorme piscina occupava metà dello spazio. Oltre a quella si ergeva la casa della piscina. Hernandez andò da quella parte e gli altri due lo seguirono.
“Cosa le fa pensare che non si sia trattato semplicemente di un incidente?” gli chiese Jessie.
“Non ho tratto ancora nessuna conclusione,” rispose lui. “Il medico legale sarà in grado di dirci di più in mattinata. Ma la signora Missinger ha il diabete da sempre e secondo suo marito non ha mai avuto un incidente del genere prima d’ora. Pare che sapesse bene come prendersi cura di se stessa.”
“Gli avete già parlato?” chiese Jessie.
“No,” rispose Hernandez.