e, al momento, sembrava facesse la madre meglio di Riley.
Riley chiamò Gabriela: “C’è Ryan?”
Quando si allontanò, Gabriela rispose: “Sí.” Poi, chiamò in casa: “Señor Paige, sua figlia è tornata.”
Ryan apparve nel salotto, vestito di tutto punto per uscire. Sembrò sorpreso di vedere Riley.
“Che cosa ci fai qui?” le chiese. “Dov’era April?”
“Era a casa mia.”
“Come? Dopo tutto quello che è successo ieri sera, l’hai portata a casa?”
Riley era visibilmente esasperato e non faceva nulla per nasconderlo.
“Non l’ho portata in nessun posto” lei disse. “Chiedilo a lei, se vuoi sapere come ci è arrivata. Non posso farci niente, se non vuole vivere con te. Tu sei il solo che possa sistemare la cosa.”
“E’ tutta colpa tua, Riley. L’hai lasciata completamente da sola, del tutto fuori controllo.”
Per una frazione di secondo, Riley fu sul punto di esplodere. Ma la sua rabbia cedette all’idea che l’ex marito potesse avere ragione. Non era giusto, ma lui sapeva davvero come farle male.
Riley, dopo un profondo respiro, disse: “Ascolta, sto andando via per alcuni giorni. Ho un caso nel nord dello stato di New York. April deve stare qui, e deve restarci assolutamente. Per favore, spiega la situazione a Gabriela.”
“Tu spieghi la situazione a Gabriela” Ryan scattò. “Devo incontrare un cliente. Ora.”
“E io ho un aereo da prendere. Ora.”
Restarono a guardarsi per un momento. Il loro litigio era a un punto morto. Guardandolo negli occhi, si ricordò di quando lo aveva amato. E sembrava che lui ricambiasse. All’epoca erano entrambi giovani e poveri, prima che lui diventasse un avvocato di successo e lei agente dell’FBI.
Certo, doveva ammettere che era un tipo attraente. Era stato difficile per lui raggiungere la forma e trascorreva molte ore in palestra.
Riley sapeva benissimo che aveva avuto molte donne nella sua vita. Quello era parte del problema: si stava godendo la libertà da scapolo tanto da dimenticarsi di fare il padre.
Non che io stia facendo molto meglio, pensò.
Poi, Ryan disse: “E’ sempre il tuo lavoro.”
Riley trattenne a stento un nuovo moto di rabbia.
Avevano litigato di continuo per questo motivo. Il suo lavoro in qualche modo era sempre troppo pericoloso e di scarsa importanza. Il lavoro dell’ex marito era l’unico che contava, perché stava guadagnando molti più soldi, e perché sosteneva di fare la vera differenza nel mondo. Come se seguire cause per clienti facoltosi fosse più utile dell’interminabile guerra di Riley contro il male.
Ma non poteva lasciarsi trascinare in questo freddo e vecchio litigio ora. Non ci sarebbero stati vincitori, in ogni caso.
“Ne parleremo quando torno” si limitò a replicare.
La donna si voltò e uscì dalla casa. Sentì Ryan chiudere la porta dietro di lei.
Riley entrò in auto e se ne andò. Aveva meno di un’ora per tornare a Quantico. Era molto agitata. Stava accadendo tutto così in fretta.
Solo poche ore prima, aveva deciso di seguire un nuovo caso. Ora si chiedeva se fosse la cosa giusta da fare. Non solo incontrava difficoltà nel rapporto con April, ma era certa che Peterson fosse tornato nella sua vita.
Ma, in ogni caso, aveva un senso. Fino a quando April fosse rimasta con il padre, sarebbe stata al sicuro dalle grinfie di Peterson, che - peraltro - non avrebbe fatto altre vittime in sua assenza. Per quanto non riuscisse a comprenderlo, Riley dava per certa una cosa: lei era il bersaglio della sua vendetta. Lei e nessun altro era destinata ad essere la sua prossima vittima. E sarebbe stato bello stare lontana da lui per un po’.
Ricordò anche una dura lezione che aveva appreso durante il suo ultimo caso — non poteva eliminare tutto il male nel mondo nello stesso tempo. Il che si riduceva ad un semplice motto: Un mostro alla volta.
E, in quel momento, doveva occuparsi di un bruto molto aggressivo. Un uomo che lei sapeva avrebbe presto colpito di nuovo.
Capitolo 7
L’uomo cominciò a stendere delle catene per l’intera lunghezza del tavolo da lavoro in soffitta. Era buio fuori, ma tutte quelle catene di acciaio inossidabile rilucevano e brillavano alla luce fioca di una lampadina.
Sollevò una delle catene per tutta la sua lunghezza. Il tintinnio gli fece tornare alla memoria i terribili ricordi di quando era stato ammanettato, imprigionato e tormentato con catene del genere. Era come se continuasse a ripetere, nella sua mente: Devo affrontare le mie paure.
E, per farlo, doveva provare la sua maestria con quelle stesse catene. Troppo spesso, in passato, le catene avevano prevalso su di lui.
Era un peccato che qualcuno dovesse soffrire per questo.
Per cinque anni, aveva lottato per lasciarsi tutto alle spalle. Lo aveva aiutato molto l’essere assunto dalla chiesa come guardiano notturno. Gli era piaciuto quel lavoro, ed era stato orgoglioso del ruolo che ricopriva. Gli era piaciuto sentirsi forte ed utile.
Ma, il mese scorso, lo avevano licenziato. Avevano bisogno di qualcuno dotato di migliori capacità nel campo della sicurezza, così avevano detto, e migliori credenziali — qualcuno più grande e più forte.
Gli avevano promesso di continuare a farlo lavorare nel giardino. In questo modo avrebbe continuato a guadagnare quel tanto che bastava per pagare l’affitto di quella minuscola casa.
Nonostante questo, la perdita di quell’impiego, la perdita dell’autorità che svolgerlo gli conferiva, lo aveva fatto sentire inutile.
Quel bisogno si era impossessato di nuovo di lui — la disperazione di non essere inutile, quell’irresistibile impulso di dimostrare il suo controllo delle catene, così che non potessero più prenderlo di nuovo.
Al principio aveva provato a ignorare quella bisogno, come se cercasse di nascondere quell’oscuro male in una cantina. Alla fine, aveva guidato fino a Reedsport, sperando di sfuggirle. Ma non ci era riuscito.
Non sapeva perché non ci riusciva. Era un brav’uomo, con un buon cuore, e gli piaceva fare favori. Ma, presto o tardi, la sua gentilezza si rivoltava sempre contro di lui. Quando aveva aiutato quella donna, quell’infermiera, a portare la spesa nella sua auto a Reedsport, lei gli aveva sorriso e gli aveva detto: “Che bravo ragazzo!”
Lui sussultò al ricordo del sorriso e di quelle parole.
“Che bravo ragazzo!”
Sua madre gli sorrideva e gli diceva cose simili, anche mentre gli legava la gamba, con una catena corta, in modo che non potesse raggiungere il cibo e neppure vedere fuori. E anche le suore avevano sorriso e detto cose simili, quando lo osservavano attraverso lo spioncino della porta della sua piccola prigione.
“Che bravo ragazzo!”
Non tutti erano crudeli, lui lo sapeva. Molte persone avevano davvero buone intenzioni con lui, specialmente in quella piccola cittadina dove viveva da tanto tempo.
A molti lui piaceva. Ma perché tutti sembravano pensare a lui come un bambino — e un bambino handicappato in quel modo? Aveva ventisette anni, e sapeva di essere molto intelligente. La sua mente era piena di idee brillanti e gli era capitato di rado di incontrare un problema, che non sapesse risolvere.
Ma, naturalmente, sapeva perché le persone lo vedevano in quel modo. Era dovuto al fatto che riusciva a malapena a parlare. Aveva balbettato disperatamente per tutta la vita, e a stento era riuscito ad imparare a parlare, sebbene comprendesse tutto quello che gli altri dicevano.
Inoltre, era piccolo e gracile, ed i suoi tratti erano tozzi e infantili, come quelli di una persona nata con alcuni difetti congeniti.