Джек Марс

Obiettivo Primario


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ho ancora l’assistenza sanitaria, e quindi mia figlia nascerà qui. Ma dopo? Me ne andrò più lontano possibile dall’esercito e da quelli come te. Wayne è stato sciocco a farsi coinvolgere da tutto questo, e io sono stata sciocca ad assecondarlo. Non ti devi preoccupare, sergente Stone. Non sono una tua responsabilità. Non sei il padrino di mia figlia.”

      Luke non riusciva a pensare a una sola cosa da dire. Guardò nella tazza e vide che aveva già finito il suo tè. La appoggiò sul tavolo. Lei la prese e spostò la sua mole davanti alla porta della minuscola casa. La aprì e la tenne spalancata.

      “Buona giornata, sergente Stone.”

      Lui la fissò.

      Katie iniziò a piangere. La sua voce rimase bassa.

      “Ti prego. Esci da casa mia. Esci dalla mia vita.”

      ***

      La cena fu triste e deprimente.

      Erano seduti al tavolo, uno davanti all’altra, senza parlare. Lei aveva preparato pollo farcito e asparagi, ed erano buoni. Aveva stappato una birra per lui e l’aveva versata in un bicchiere. Era stata gentile.

      Mangiavano in silenzio, quasi come se le cose fossero normali.

      Ma Luke non riusciva a costringersi a guardarla.

      C’era una Glock nove millimetri nero opaco sul tavolo vicino alla sua mano destra. Era carica.

      “Luke, stai bene?”

      Lui annuì. “Sì, sto bene.” Prese un sorso della sua birra.

      “Perché la tua pistola è sul tavolo?”

      Alla fine Luke alzò lo sguardo su di lei. Era bellissima, ovviamente, e la amava. Era incinta del suo bambino, e indossava una camicetta premaman a fiori. Avrebbe potuto piangere per la sua bellezza, e per la forza del suo amore per lei. Lo provava intensamente, come un’onda che si infrangesse sugli scogli.

      “Uh, è solo in caso mi servisse, amore.”

      “Perché dovrebbe servirti? Stiamo solo cenando. Siamo nella base. Siamo al sicuro qui. Nessuno può…”

      “Ti dà fastidio?” chiese.

      Rebecca alzò le spalle. Si infilò una piccola forchettata di pollo in bocca. Becca mangiava lentamente e con cura. Prendeva morsi piccoli e spesso le serviva molto tempore finire la cena. Non divorava il pasto come faceva altra gente. A Luke piaceva quella sua caratteristica. Era una delle loro differenze. Lui tendeva a far sparire il suo cibo in un batter d’occhio.

      La guardò masticare lentamente. Aveva denti larghi e gli incisivi molto grandi. Era carino. Lo trovava adorabile.

      “Sì, un po’,” rispose la donna. “Non lo hai mai fatto prima. Hai paura che…”

      Luke scuse la testa. “Non ho paura di niente. Sta per nascere il nostro bambino, no? È importante tenerlo al sicuro da tutto. È nostra responsabilità. È un mondo pericoloso, Becca, nel caso non lo sapessi.”

      Luke annuì per sottolineare la verità delle proprie parole. Sempre più, stava iniziando a notare i rischi che li circondavano. C’erano coltelli affilati nei cassetti della cucina. C’erano trincianti e una grossa mannaia nel blocco di legno sul bancone. C’erano forbici nell’armadietto dietro allo specchio del bagno.

      La macchina aveva i freni, e qualcuno avrebbe potuto tagliarli con facilità. Se Luke sapeva farlo, lo stesso valeva per molte altre persone. E là fuori c’era molta gente che poteva voler pareggiare i conti con Luke Stone.

      Sembrava quasi…

      Becca stava piangendo. Spinse via la sedia dal tavolo e si alzò. Il suo volto era diventato rosso nel giro di pochi secondi.

      “Amore? Che c’è che non va?”

      “Tu,” rispose lei, con le guance rigate di lacrime. “C’è qualcosa che non va in te. Non sei mai tornato a casa in queste condizioni prima. Mi hai salutata a malapena. Praticamente non mi hai toccata. Mi sento come se fossi invisibile. Rimani sveglio tutta la notte. Non credo che tu abbia chiuso occhio da quando sei qui. E ora tieni una pistola sul tavolo da pranzo. Ho paura, Luke. Ho paura che ci sia qualcosa di orribilmente sbagliato in te.”

      Lui si alzò e Rebecca fece un passo indietro. Spalancò gli occhi.

      Quello sguardo. Era lo sguardo di una donna spaventata da un uomo. Ed era lui quell’uomo. Ne fu inorridito. Ritornò bruscamente alla realtà. Non si sarebbe mai immaginato che la moglie lo guardasse mai in quella maniera. Non voleva che le capitasse mai più, né per colpa sua, né per colpa di qualcun altro, per nessuna ragione.

      Abbassò gli occhi sul tavolo. Vi aveva appoggiato una pistola carica durante la cena. Ma perché aveva fatto una cosa simile? All’improvviso si vergognò di quell’arma. Era squadrata, piatta e brutta. Avrebbe voluto coprirla con il tovagliolo, ma era troppo tardi. Lei l’aveva già vista.

      Guardò di nuovo Rebecca.

      Lei era in piedi dall’altra parte del tavolo, miserevole, come una bambina, con le spalle curve, il volto contratto e le guance bagnate di lacrime.

      “Io ti amo,” gli disse. “Ma mi preoccupi adesso.”

      Lui annuì. La cosa seguente che Luke disse sorprese anche lui.

      “Credo che io debba allontanarmi per un po’.”

      CAPITOLO CINQUE

      14 aprile

      9:45 a.m. Eastern Daylight Time

      Presidio sanitario dell’ufficio veterani (VA) di Fayetteville

      Fayetteville, North Carolina

      “Perché sei qui, Stone?”

      La voce riscosse Luke delle fantasticherie in cui si era perso. Gli capitava spesso di addentrarsi tra i suoi pensieri e le memorie di quei tempi, e in seguito non riusciva a ricordare su che cosa stesse riflettendo.

      Alzò lo sguardo.

      Era seduto su una sedia pieghevole in un gruppo di otto uomini. La maggior parte era seduta su altre sedie pieghevoli. Due erano in carrozzina. Il gruppo occupava un angolo di una sala ampia ma squallida. Le finestre sulla parete opposta mostravano che era una giornata assolata di inizio primavera, ma in qualche modo la luce esterna non riusciva a penetrare nella stanza.

      Il gruppo era posizionato in semicerchio, rivolto verso un uomo barbuto di mezza età con un grosso stomaco. Indossava pantaloni di velluto a coste e una camicia di flanella rossa. Il suo ventre sporgeva in fuori, simile a un pallone da spiaggia nascosto sotto la camicia, ma era piatto, come se fosse stato mezzo sgonfio. Luke sospettava che se gli avesse sferrato un pugno, lo avrebbe trovato duro come una padella di ferro. Era alto, ed era appoggiato all’indietro sullo schienale della sedia, le gambe sottili stese diritte davanti a lui.

      “Chiedo scusa?” domandò Luke.

      L’uomo sorrise, ma senza alcun divertimento.

      “Perché… sei… qui?” ripeté lui. Lo disse lentamente, come se stesse parlando con un bambino, o con un idiota.

      Luke guardò gli uomini attorno a sé. Quella era la terapia di gruppo per i veterani di guerra.

      Era una domanda legittima. Luke non apparteneva a quel posto. Quegli uomini erano distrutti. Fisicamente disabili. Traumatizzati.

      Sembrava che alcuni di loro non sarebbero mai tornati come prima. L’uomo di nome Chambers forse era quello nella situazione peggiore. Aveva perso un braccio ed entrambe le gambe. Aveva il volto sfigurato. La metà sinistra era coperta da bende, e da sotto sporgeva una grande placca metallica, per stabilizzare quello che era rimasto delle ossa facciali di quel lato. Aveva perso l’occhio sinistro, e ancora non glielo avevano sostituito. A un certo punto, dopo avergli ricostruito l’orbita oculare, gli avrebbero messo un bell’occhio finto.

      Chambers