il loro comandante. Incombeva su di loro, più grande e più alto degli altri, con pelle e corna gialle, gli occhi rossi scintillanti, senza camicia e con i muscoli ben evidenti. Indossava un’armatura nera che gli proteggeva le gambe, degli stivali e delle fasce di pelle ai polsi. Portava gli stemmi da ufficiale dell’Impero e camminava avanti e indietro esaminandoli tutti con aria colma di disapprovazione.
“Io sono Morg,” disse con voce cupa, tuonante e carica di autorità. “Mi chiamerete signore. Sono il vostro nuovo guardiano. Sono tutta la vostra vita adesso.”
Respirava rumorosamente mentre camminava, un suono del tutto simile a un ringhio.
“Benvenuti nella vostra nuova casa,” continuò. “Cioè, la vostra casa provvisoria. Perché prima che la luna sia alta in cielo sarete tutti morti. In effetti sarà un grosso piacere vedervi morire tutti.”
Sorrise.
“Ma fino a che sarete qui,” aggiunse, “vivrete. Vivrete per assecondare me. Vivrete per assecondare gli altri. Vivrete per assecondare l’Impero. Siete nostri oggetti di intrattenimento ora. Od oggetti da esibizione. Il nostro intrattenimento saranno le vostre morti. E lo metterete bene in pratica.”
Sorrise crudelmente continuando a camminare osservandoli con attenzione. Venne un forte grido da qualche parte in lontananza e tutto il terreno tremò sotto i piedi di Dario. Sembrava il grido di centomila uomini assetati di sangue.
“Udite quel grido?” chiese. “È il grido della morte. Sete di morte. Laggiù, oltre quelle mura, si trova una grande arena. In quell’arena combatterete con gli altri, tra di voi. Fino a che non sarà rimasto nessuno.”
Sospirò.
“Ci saranno tre round di battaglia,” aggiunse. “In quello finale, se qualcuno di voi sopravviverà, vi verrà assicurata la libertà: vi verrà assicurata una possibilità di combattere nella più grande arena. Ma non siate troppo speranzosi: nessuno è mai sopravvissuto così a lungo.
“Non morirete velocemente,” aggiunse. “Sono qui per accertarmene. Voglio che moriate lentamente. Voglio che siate grandiosi oggetti di intrattenimento. Imparerete a combattere, e lo imparerete bene, pe prolungare il piacere. Perché non siete più uomini. Non siete schiavi. Siete meno degli schiavi: siete gladiatori adesso. Benvenuti nel vostro nuovo e ultimo ruolo. Non durerà moltissimo.”
CAPITOLO CINQUE
Volusia camminava nel deserto, le sue centinaia di migliaia di uomini dietro di lei, il rumore dei loro stivali a riempire l’aria attorno. Era un dolce suono alle sue orecchie, un suono di progresso, di vittoria. Guardava davanti a sé mentre procedeva ed era soddisfatta di vedere i cadaveri sparpagliati all’orizzonte, ovunque sulla sabbia dura e secca attorno alla capitale dell’Impero. Migliaia, dappertutto, tutti perfettamente immobili, stesi sulle schiene con i volti pietrificati dall’agonia rivolti ora verso il cielo, come se fossero stati appiattiti da una gigantesca ondata.
Volusia sapeva che non era stata un’ondata. Era opera dei suoi stregoni, i Voks. Avevano scagliato un incantesimo molto potente e avevano ucciso tutti coloro che pensavano di poterle tendere un’imboscata e ucciderla.
Volusia sogghignava mentre marciava, contemplando il suo lavoro e godendosi quel giorno di vittoria in cui aveva annientato con un colpo solo coloro che volevano eliminarla. Erano tutti capi dell’Impero, tutto uomini grandiosi, uomini che non erano mai stati sconfitti prima, l’unica barriera ancora in piedi tra lei e la capitale. E adesso erano tutti lì, quei capi dell’Impero, tutti quegli uomini che avevano osato sfidarla, tutti quegli uomini che avevano pensato di essere più furbi di lei. Erano lì, tutti morti.
Volusia camminava tra loro, a volte evitando i corpi, altre scavalcandoli, altre ancora – se ne aveva voglia – calpestandoli. Provava una grossa soddisfazione nel sentire la carne dei nemici sotto i propri piedi. La faceva sentire ancora bambina.
Volusia sollevò lo sguardo e vide la capitale davanti a sé, la sua enorme cupola dorata che brillava inconfondibile in lontananza; vide le massicce mura che la circondavano, alte una trentina di metri; notò l’ingresso delimitato da imponenti portoni d’oro. Provò un brivido percependo il proprio destino che si stava dispiegando davanti a lei. Ora niente si trovava più tra lei e il definitivo seggio del potere. Niente più politici, capi o comandanti potevano porsi davanti a lei con la pretesa di governare l’Impero. Solo lei poteva farlo. La lunga marcia, la conquista di una città dopo l’altra per tutti quei cicli lunari; la crescita del suo esercito prelevando soldati da una città alla volta, alla fine aveva portato a quel risultato. Appena dietro a quelle mura, subito dietro a quei luccicanti portoni dorati, si trovava la conquista finale. Presto sarebbe stata all’interno, avrebbe preso il trono del potere e a quel punto non ci sarebbe stato più nessuna persona o cosa a fermarla. Avrebbe assunto il comando di tutti gli eserciti dell’Impero, di tutte le province e regioni, dei quattro corni e delle due punte; ogni singola creatura dell’Impero avrebbe dovuto dichiarare lei – un’umana – proprio comandante supremo.
Ancora di più: avrebbero dovuto chiamarla Dea.
Il pensiero la fece sorridere. Avrebbe fatto erigere statue di sé in ogni città, davanti a ogni sala del potere; avrebbe istituito festività in suo nome, avrebbe fatto salutare la gente tra loro con l’uso del suo nome e l’Impero avrebbe presto conosciuto nessun altro nome se non il suo.
Volusia marciava davanti al suo esercito sotto il sole della mattina presto, esaminando quelle porte dorate e rendendosi conto che quello sarebbe stato uno dei migliori momenti della sua vita. Facendo strada ai suoi uomini si sentiva invincibile, soprattutto ora che tutti i traditori all’interno dei suoi ranghi erano morti. Quanto stupidi erano stati, pensò, a credere che lei fosse così ingenua, a dare per scontato che sarebbe caduta nella loro trappola solo perché era giovane. Così stupidi per la loro età attempata, erano andati talmente oltre da cascarci loro stessi. Si erano guadagnati solo una morte prematura, una morte prematura per aver sottovalutato la sua saggezza, una saggezza molto superiore alla loro.
Eppure Volusia, mentre camminava e osservava i corpi dei soldati dell’Impero disseminati nel deserto, iniziava a provare un crescente senso di preoccupazione. Si rendeva conto che non c’erano così tanti corpi come avrebbero dovuto. C’erano forse qualche migliaia di cadaveri, ma non le centinaia di migliaia che si era aspettata, non la parte principale dell’esercito dell’Impero. Quei capi non avevano portato tutti i loro uomini? E se era così, dove potevano essere adesso?
Iniziò a interrogarsi: con i suoi capi morti la capitale dell’Impero si sarebbe difesa da sola?
Mentre si avvicinava ai cancelli della città Volusia fece cenno a Vokin di avvicinarsi e al suo esercito di fermarsi.
All’unisono si fermarono dietro a lei e alla fine calò il silenzio nella mattinata sul deserto: non si udiva nient’altro che il suono del vento che soffiava, della sabbia che si sollevava in aria, dei cespugli di spine che rotolavano. Volusia osservò con attenzione le massicce porte sigillate, l’oro decorato con figure, segni e simboli che narravano le antiche battaglie delle terre dell’Impero. Quelle porte erano famose in tutto l’Impero: si diceva che ci fossero voluti cento anni per realizzarle e che fossero spesse più di tre metri. Erano un segno di potenza che rappresentava tutte le terre dell’Impero.
Volusia, ad appena quindici metri di distanza, non era mai stata così vicina all’ingresso della capitale prima d’ora e lo contemplava a bocca aperta. Non solo era un simbolo di forza e stabilità, ma anche un capolavoro, un’antica opera d’arte. Avrebbe voluto allungare una mano e toccare quelle porte dorate, far scorrere le dita sulle immagini intagliate.
Ma sapeva che ora non era il momento. Le osservò percependo un senso di inquietudine crescerle dentro. C’era qualcosa che non andava. Non erano sorvegliate. E c’era troppo silenzio.
Volusia guardò davanti a sé e in cima alle mura vedendo migliaia di soldati dell’Impero che lentamente apparivano sui parapetti, allineati. Guardavano in basso con lance e archi pronti.
Nel mezzo si trovava un generale che li guardò.