ben peggiori che potevano accadere. Che sarebbero accadute, se non avessero escogitato un modo per venirne fuori.
Li alieni li portarono verso una torretta dorata e passarono attraverso una grande porta che si aprì automaticamente per consentire loro l’accesso. L’interno era tutto ciò che il resto della navicella madre non era: pulito e luminoso, dall’aspetto comodo, come una specie di hotel molto costoso, agli occhi di Kevin, o forse addirittura un palazzo. Non c’era la varietà di diverse angolazioni e direzioni qui: diversamente dal resto della navicella, tutto sembrava avere un’unica direzione in termini di sopra e sotto.
Portarono Kevin e Chloe in una stanza dove si trovavano dei macchinari a forma di cupola, che sembravano per metà costruiti e per metà cresciuti da soli. Una sezione della parete mostrava un’immagine del pianeta Terra, e Kevin non aveva idea se lo avessero fatto solo per dare una certa vivacità ai muri o come ulteriore crudeltà nei loro confronti.
Puro Xan li seguì nella stanza e si portò in mezzo a loro, vicino a uno degli strumenti a forma di cupola. Prese una alla volta delle piccole cose simili a calamari da un’apertura all’interno della cupola: ciascuno non era più grande della punta di un dito dell’alieno. Puro Xan li posò sulla testa di Kevin, dove le piccole cose si attaccarono. Erano calde e viscide allo stesso tempo.
“Cos’è questa roba?” chiese Kevin. “Cosa ci state facendo?”
“Dobbiamo esaminarvi,” rispose Puro Xan. “Vedremo qual è la vostra utilità per l’Alveare. Proverete dolore.”
Lo disse come se non fosse niente, o almeno come se non gli interessasse. Kevin sentì Chloe che si rimetteva a piangere, e avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto confortarla. Poi il dolore lo colpì, e non poté fare altro che urlare.
Era come se delle gelide dita stessero frugando tra i suoi pensieri, raccogliendo delle cose e rimettendole a posto, o forse erano i tentacoli delle cose che gli avevano attaccato alla testa. Cercò di spingerle via, concentrandosi più che poteva, ma non fece alcuna differenza: provò solo più dolore.
Kevin poteva percepire altre presenze ora, decine di menti, centinaia, che si collegavano in una specie di tacita comunione di pensieri, la loro presenza collettiva che premeva addosso a lui esplorando ogni meandro del suo essere. Sentì le proprie grida, e anche quelle di Chloe. Capì che stavano facendo la stessa cosa anche a lei.
Kevin vide poi delle immagini che fluttuavano davanti alla sua mente. Immagini di amici, di familiari, di tutto ciò che gli era successo recentemente. Vide le immagini dei Sopravvissuti, e cercò di pensare a qualcos’altro, qualsiasi cosa in modo che gli alieni non venissero a scoprire della loro esistenza. Ma percepì la loro mancanza di interesse: pareva non fare alcuna differenza per loro.
Iniziò a vedere altre cose, visioni che lampeggiavano qua e là, anche se la verità era che non riusciva a capire se fossero vere visioni o qualcosa che scorreva lungo il collegamento che aveva con il gruppo dell’Alveare. Le immagini gli riempivano la mente scatenando il dolore, acuito dalla sensazione di essere bloccato sul posto insieme alla paura di ciò che stava accadendo a Chloe.
Vide un pianeta che fluttuava nello spazio, grande e spento. Delle lune vi ruotavano attorno, ma mentre lo guardava, Kevin si rese conto che non erano lune naturali, ma altre navicelle madri. Ne vide una staccarsi dalla sua orbita, scattando a una velocità che pareva impossibile per una cosa di quelle dimensioni.
Sentì il proprio stato di coscienza che veniva spinto verso la superficie del pianeta, e quando lo raggiunse vide che la superficie era deteriorata e in rovina, inquinata e inospitale. C’erano comunque delle città, piene di figure ingobbite che assomigliavano ai Puri, ma deformi e modificate, le loro membra contorte per essere vissute in un ambiente così devastato. Kevin faceva fatica a credere che qualcuno volesse vivere in un posto come quello, ma tramite la connessione con l’Alveare capì che quelle figure non avevano altra scelta. Erano coloro che non erano stati scelti per la navicella madre.
Vide anche delle altre cose. Vide campi pieni di creature rubate da altri mondi. Vide fabbriche di creature dove queste venivano esaminate e rimodellate, torturate in ogni modo immaginabile, con elettricità e fuoco, e non solo. Vide creature sezionate da vive, o costrette ad accoppiarsi con altre in combinazioni che producevano mostri. Nel mezzo della desolazione del pianeta in rovina, vide delle piccole cupole verdi, come perfette isole nell’orrore di tutto il resto. Kevin non fu sorpreso di vedere delle torri dorate al centro di ciascuna.
Tornò in sé annaspando, sentendosi come se ogni rimasuglio di energia gli fosse stato tirato fuori. Si trovava sdraiato sulla piattaforma e si guardò attorno vedendo che ora nella stanza, oltre a lui c c’era solo Chloe. Era come se le visioni fossero durate solo pochi secondi, ma doveva essere passato più tempo, per concedere ai Puri di lasciare la stanza.
“Chloe?” disse Kevin.
La sentì gemere e la vide aprire gli occhi voltandosi a guardarlo. I contorni degli occhi erano rossi per aver pianto.
“Ho visto… ho visto…”
“Lo so,” disse Kevin. “L’ho visto anch’io.”
“Ci uccideranno,” disse Chloe. “Ci faranno a pezzi per vedere come funzioniamo. Faranno esperimenti su di noi, come fanno i bambini quando strappano le ali alle mosche.”
Kevin avrebbe annuito se avesse potuto staccare la testa dalla cornice. Era quello il problema: potevano parlare di quanto fosse necessario andarsene da lì, potevano vedere tutto ciò che sarebbe successo, ma non potevano comunque muoversi. Tutto ciò che potevano fare era rimanere lì, fissare lo schermo davanti a loro, e la Terra che lentamente seguiva la sua rotazione.
Gli ci vollero uno o due secondi per rendersi conto che si stava rimpicciolendo.
All’inizio fu graduale, il pianeta che si allontanava poco alla volta. Poi iniziò a muoversi più rapidamente, sempre di più, fino a recedere al punto da diventare un puntino. Poi non ci fu più neppure quello e lo spazio attorno alla navicella madre rimase vuoto mentre essa continuava a sfrecciare.
Kevin fissò con orrore lo schermo. Non sapeva dove stessero andando, ma qualsiasi cosa potesse convincere gli alieni ad allontanare la loro nave spaziale dalla Terra, di certo non era nulla di buono per lui e Chloe.
Né per Luna.
CAPITOLO TRE
Luna lottava. Con ogni briciolo di energia che riuscì a trovare in sé, cercava di combattere contro l’immobilità che le scorreva nel corpo, rendendola lenta, facendola fermare. Si trovava nel mezzo di Sedona, al centro di un gruppo di gente controllata, e la sua mentre gridava nello sforzo di tentare di impedirsi di diventare come loro.
Era come se il suo corpo si stesse trasformando in pietra, oppure… no, era più come se i suoi arti si stessero addormentando mentre lei all’interno era ancora sveglia. Non sentiva le punte delle dita, ma continuò a lottare. Si sentiva scivolare nello stato controllato, però, diventando sempre più prigioniera del proprio corpo a ogni secondo che passava. Era come se fosse in trappola dietro a un vetro, la sua personalità e la sua capacità di controllarsi trasformati in qualcosa da mettere in mostra in un museo costituito dalla sua carne e dalle sue ossa.
Il mondo stesso le appariva come se stesse guardando attraverso un vetro stranamente filtrato, con i colori che mutavano in modo tale che tutto ciò che Luna osservava aveva una strana opacità lattiginosa, e nuove tinte apparivano al limitare del suo campo visivo. Luna non aveva bisogno di uno specchio per sapere che le sue pupille doveva essere di un bianco vivo ormai, e odiava quella condizione.
Continuerò a lottare, disse a se stessa. Non mi arrenderò. Kevin ha bisogno di me.
Nonostante la sua determinazione, era difficile ignorare il fatto che le sue braccia e le sue gambe non ne volessero sapere di fare ciò che lei ordinava loro. Luna se ne stava semplicemente ferma lì, proprio come tutti gli altri che le stavano attorno a Sedona, immobile come una marionetta inutilizzata, incapace di fare nulla di più che sbattere le palpebre e respirare.
Si